Questa ricostruzione della società dei consumi inizia con il cibo protagonista non solo del palato, ma anche dell’occhio: esso è collocabile ben oltre il concetto di “edibile” e all’interno di un ordine di relazione che può diventare esclusivamente visuale. Lo diventa nel momento in cui rivestirlo barthesianamente significa superare la soglia oltre la quale l’alimento assume le caratteristiche dell’ornamento: esso diventa un motivo di distinzione che promette di arredare in un certo modo lo spazio in cui è inserito e di circondare il suo proprietario con una specifica atmosfera di rimandi di significati sociali. Una simile capacità, quella di riuscire a elevare il profitto segnico del cibo a dismisura – profitto segnico che è economico – si ritrova all’interno della società dei consumi. Il cibo deve essere spettacolarizzato in misura crescente attraverso un arricchimento del suo contenuto ornamentale, altrimenti non si distinguerebbe nel magma caotico della comunicazione. Nonostante la cucina ornamentale possa sembrare distante ed esagerata, essa è pur sempre presente sulle nostre tavole: il derma mediatico è il nuovo rivestimento barthesiano che indossa il cibo in quanto merce per sfilare sulle tavole, nelle vetrine e giù per lo stomaco: i rimandi di significato che tale rivestimento evoca saturano il mondo di immagini, che cancellano dalla coscienza del consumatore la realtà imperfetta del processo di produzione e di smaltimento dei rifiuti, per di più come se ciò che viene consumato si generasse da solo in una sorta di profusione magica e infinita simile a quella del Paese di Cuccagna. Questo nuovo rivestimento non appesantisce più come quello barthesiano, poiché al contrario alleggerisce il cibo, cioè cerca di conformarlo alla sua immagine pubblicitaria, riducendo – ma solo nell’immaginario dei consumatori – quel peso concreto che lascia un’impronta ecologica ed elevando il profitto segnico che, come si diceva, è economico. L’ipotesi avanzata dal presente lavoro è che sia necessario partire dai rifiuti per decolonizzare gli immaginari saturi di fantasie e fantasmagorie che nascondono – dietro l’eccesso caleidoscopico, la comodità bengodiana e il possesso inebriante della merce – la dilapidazione delle foreste, l’obsolescenza di intere porzioni di mondo, l’estinzione di specie animali sopraffatte dal cambiamento climatico, la fame degli altri. La residualità libera dalla fantasmagoria delle merci, affrancata dalla self-fulfilling prophecy e fuori dal gioco d’azzardo invincibile dei consumi diventa capace di incrinare l’intera costruzione d’ordine e di utilizzabilità ma allo stesso tempo di alludere a un possibile e altro appagamento del desiderio, a un’altra possibile salvezza dalla salvezza à la page dei consumi. In questo contesto, la residualità del cibo ha un ruolo particolare, specialmente se è piccola e apparentemente insignificante: posate di plastica sporche, bottiglie vuote, briciole sono quelle residualità con cui quotidianamente abbiamo a che fare e quindi quelle che con più probabilità possono cominciare il lungo processo che consiste nel prendere coscienza del riverbero sistemico e del debito costitutivo che ogni progetto di senso comporta, quindi nel prendere di nuovo possesso della propria capacità di scegliere e di rivedere le proprie scelte, liberando la storia dalla gabbia d’acciaio della predestinazione e l’uomo dal senso di colpa, convertito in una nuova responsabilità di azione e retroazione.

La società dei consumi e dei rifiuti alimentari

MOCCAGATTA, VITTORIA
2021/2022

Abstract

Questa ricostruzione della società dei consumi inizia con il cibo protagonista non solo del palato, ma anche dell’occhio: esso è collocabile ben oltre il concetto di “edibile” e all’interno di un ordine di relazione che può diventare esclusivamente visuale. Lo diventa nel momento in cui rivestirlo barthesianamente significa superare la soglia oltre la quale l’alimento assume le caratteristiche dell’ornamento: esso diventa un motivo di distinzione che promette di arredare in un certo modo lo spazio in cui è inserito e di circondare il suo proprietario con una specifica atmosfera di rimandi di significati sociali. Una simile capacità, quella di riuscire a elevare il profitto segnico del cibo a dismisura – profitto segnico che è economico – si ritrova all’interno della società dei consumi. Il cibo deve essere spettacolarizzato in misura crescente attraverso un arricchimento del suo contenuto ornamentale, altrimenti non si distinguerebbe nel magma caotico della comunicazione. Nonostante la cucina ornamentale possa sembrare distante ed esagerata, essa è pur sempre presente sulle nostre tavole: il derma mediatico è il nuovo rivestimento barthesiano che indossa il cibo in quanto merce per sfilare sulle tavole, nelle vetrine e giù per lo stomaco: i rimandi di significato che tale rivestimento evoca saturano il mondo di immagini, che cancellano dalla coscienza del consumatore la realtà imperfetta del processo di produzione e di smaltimento dei rifiuti, per di più come se ciò che viene consumato si generasse da solo in una sorta di profusione magica e infinita simile a quella del Paese di Cuccagna. Questo nuovo rivestimento non appesantisce più come quello barthesiano, poiché al contrario alleggerisce il cibo, cioè cerca di conformarlo alla sua immagine pubblicitaria, riducendo – ma solo nell’immaginario dei consumatori – quel peso concreto che lascia un’impronta ecologica ed elevando il profitto segnico che, come si diceva, è economico. L’ipotesi avanzata dal presente lavoro è che sia necessario partire dai rifiuti per decolonizzare gli immaginari saturi di fantasie e fantasmagorie che nascondono – dietro l’eccesso caleidoscopico, la comodità bengodiana e il possesso inebriante della merce – la dilapidazione delle foreste, l’obsolescenza di intere porzioni di mondo, l’estinzione di specie animali sopraffatte dal cambiamento climatico, la fame degli altri. La residualità libera dalla fantasmagoria delle merci, affrancata dalla self-fulfilling prophecy e fuori dal gioco d’azzardo invincibile dei consumi diventa capace di incrinare l’intera costruzione d’ordine e di utilizzabilità ma allo stesso tempo di alludere a un possibile e altro appagamento del desiderio, a un’altra possibile salvezza dalla salvezza à la page dei consumi. In questo contesto, la residualità del cibo ha un ruolo particolare, specialmente se è piccola e apparentemente insignificante: posate di plastica sporche, bottiglie vuote, briciole sono quelle residualità con cui quotidianamente abbiamo a che fare e quindi quelle che con più probabilità possono cominciare il lungo processo che consiste nel prendere coscienza del riverbero sistemico e del debito costitutivo che ogni progetto di senso comporta, quindi nel prendere di nuovo possesso della propria capacità di scegliere e di rivedere le proprie scelte, liberando la storia dalla gabbia d’acciaio della predestinazione e l’uomo dal senso di colpa, convertito in una nuova responsabilità di azione e retroazione.
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