Senza semplificare l’oggetto dello studio - ossia la letteratura - ma usandone anzi la complessità come bussola, questo lavoro si propone di trovare un criterio definitorio che consenta di riconoscere le caratteristiche peculiari delle opere letterarie e ciò che le distingue dai testi non letterari. L’ipotesi, formulata sulla scia di Todorov, Genette e Lamarque, è che il linguaggio letterario sia un linguaggio opaco, o per lo meno più opaco del linguaggio non letterario, nel senso che attira l’attenzione su se stesso rendendosi ben visibile al lettore. Questi, abituato a usare il linguaggio come un mezzo trasparente, direttamente “affacciato” sul suo referente, viene invece trattenuto al livello delle parole con conseguente dilatazione dello spazio tra segno e senso. Il suo sguardo al referente (la “cosa” nominata) è prolungato e ben orientato, e ha così modo di osservarne tutti i dettagli che l’autore ha inteso mostrargli. Per ottenere un tale effetto, gli scrittori utilizzano un gran numero di tecniche e di figure retoriche: il presente lavoro di tesi ne prende in considerazione quattro, indagandone i meccanismi e collegandoli alla produzione di “opacità” linguistica (nell’ordine, si considerano la metafora, l’inventio, l’elenco e la fabula). L’opera letteraria è insomma una rappresentazione della realtà filtrata attraverso la peculiare concezione della vita del suo autore ed espressa attraverso l’attivazione di strategie retoriche che consentono di ragionare indirettamente della complessità del mondo in oggetto. Se ne conclude che il “senso” delle opere letterarie è così difficile da riportare in maniera esplicita e piana proprio perché non si può trasporre fuori dall’opera, ma le appartiene intrinsecamente, è cucito assieme al suo linguaggio - ne costituisce, per così dire, il rovescio.
Il linguaggio opaco della letteratura
CHICCO, GIOVANNA
2020/2021
Abstract
Senza semplificare l’oggetto dello studio - ossia la letteratura - ma usandone anzi la complessità come bussola, questo lavoro si propone di trovare un criterio definitorio che consenta di riconoscere le caratteristiche peculiari delle opere letterarie e ciò che le distingue dai testi non letterari. L’ipotesi, formulata sulla scia di Todorov, Genette e Lamarque, è che il linguaggio letterario sia un linguaggio opaco, o per lo meno più opaco del linguaggio non letterario, nel senso che attira l’attenzione su se stesso rendendosi ben visibile al lettore. Questi, abituato a usare il linguaggio come un mezzo trasparente, direttamente “affacciato” sul suo referente, viene invece trattenuto al livello delle parole con conseguente dilatazione dello spazio tra segno e senso. Il suo sguardo al referente (la “cosa” nominata) è prolungato e ben orientato, e ha così modo di osservarne tutti i dettagli che l’autore ha inteso mostrargli. Per ottenere un tale effetto, gli scrittori utilizzano un gran numero di tecniche e di figure retoriche: il presente lavoro di tesi ne prende in considerazione quattro, indagandone i meccanismi e collegandoli alla produzione di “opacità” linguistica (nell’ordine, si considerano la metafora, l’inventio, l’elenco e la fabula). L’opera letteraria è insomma una rappresentazione della realtà filtrata attraverso la peculiare concezione della vita del suo autore ed espressa attraverso l’attivazione di strategie retoriche che consentono di ragionare indirettamente della complessità del mondo in oggetto. Se ne conclude che il “senso” delle opere letterarie è così difficile da riportare in maniera esplicita e piana proprio perché non si può trasporre fuori dall’opera, ma le appartiene intrinsecamente, è cucito assieme al suo linguaggio - ne costituisce, per così dire, il rovescio.File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14240/80060