1. PER UNA PEDAGOGIA TEATRALE DEL CORPO ESPRESSIVO 1.1 Teatro e pedagogia della comunicazione corporea Quando i bambini sono molto piccoli, i genitori capiscono subito che il linguaggio della parola da solo non è sufficiente per comunicare con loro. La mamma abbraccia il piccolo, lo accarezza, gli sta molto vicino. Il contatto a volte appare talmente intenso che sembra ci sia un desiderio reciproco di fondersi, di ritornare a far parte di un unico corpo. Gli occhi della madre diventano più sensibili, le sue mani, le sue orecchie amplificano la capacità d'ascolto, il suo cuore batte forte e vampate di calore la pervadono quando il suo bambino conquista un'abilità. Il bambino piccolo impara per bisogno e per amore. In principio il bambino non si preoccupa di mettere in relazione ciò che lui fa con quello che lui sente o vede. La sua "lingua" parla attraverso una memoria biologica, genetica, la pelle del bambino è sensibile alle carezze, il suo cervello seleziona il calore delle labbra come contatto positivo. I suoi gesti a volte disarticolati, la sua salivazione o la pipì fatta sulla mano del papà, il pianto e il riso esprimono stati d'animo, sono bisogni primitivi, intenzioni premeditate dal corpo per manifestare comunicazione con qualcuno che il bambino avverte essere della sua stessa sostanza. A volte però, il meccanismo gioioso della comunicazione trova ostacoli. I bambini non piangono, non ridono, restano apparentemente insensibili alle carezze e al suono delle voci. Questi bambini sono definiti disabili. Gli adulti si disorientano, non si aspettano il silenzio, non sanno leggere gli occhi assenti, si spaventano del corpo che non vuole nutrirsi. Subentra la paura poiché il "noi" fusionale, che nella normalità si stempera con il tempo, in questi casi segue percorsi diversi: quel bambino da piccolo amore ancora cucito sulla pelle della madre rischia di diventare immediatamente un "corpo estraneo" violentemente catapultato nell'emisfero della differenza. Quei bambini silenziosi si presentano al mondo nudi. Apparentemente anche la memoria genetica sembra aver obliato i segni dell'appartenenza. Eppure i loro corpi non fingono, non recitano un copione secondo regola ma trattengono dentro un mistero: a volte sembrano rapiti da visioni spaventose, altre volte sono immersi in una contemplazione profonda dalla quale siamo esclusi. Il dolore per l'esclusione, la nostra impossibilità di accedere al silenzio profondo, i terremoti del cervello non pronto a sintonizzarsi o ad appartenere al mondo dei normali ci fa imprecare contro il cielo. Vi sono molte cose che accomunano gli esseri umani, tra questi tre sono vitali: bisogno di dormire, di nutrirsi e d'amore. Al bambino si chiede di rappresentare, si vorrebbe una chiara manifestazione del suo "io". Vorremmo da lui un riconoscimento della spaccatura del mondo: da una parte il sé, dall'altra il noi. Da un lato il palcoscenico che prevede gli altri come spettatori, da un altro lato l'attore. Il percorso è lungo e tortuoso, perciò ci spaventiamo se il piccolo non si separa da noi, se non rispetta le tappe ordinarie. Quando un ostacolo s'insinua tra i bisogni e la capacità d'agire per soddisfare le proprie esigenze, ci troviamo di fronte ad una reale debolezza che può attaccare il corpo e la mente.
IL CORPO E L'ESPRESSIONE DEBOLE:ESPERIENZE DI LABORATORIO TEATRALE CON PERSONE DISABILI
BADOLATO, GIUSEPPE
2009/2010
Abstract
1. PER UNA PEDAGOGIA TEATRALE DEL CORPO ESPRESSIVO 1.1 Teatro e pedagogia della comunicazione corporea Quando i bambini sono molto piccoli, i genitori capiscono subito che il linguaggio della parola da solo non è sufficiente per comunicare con loro. La mamma abbraccia il piccolo, lo accarezza, gli sta molto vicino. Il contatto a volte appare talmente intenso che sembra ci sia un desiderio reciproco di fondersi, di ritornare a far parte di un unico corpo. Gli occhi della madre diventano più sensibili, le sue mani, le sue orecchie amplificano la capacità d'ascolto, il suo cuore batte forte e vampate di calore la pervadono quando il suo bambino conquista un'abilità. Il bambino piccolo impara per bisogno e per amore. In principio il bambino non si preoccupa di mettere in relazione ciò che lui fa con quello che lui sente o vede. La sua "lingua" parla attraverso una memoria biologica, genetica, la pelle del bambino è sensibile alle carezze, il suo cervello seleziona il calore delle labbra come contatto positivo. I suoi gesti a volte disarticolati, la sua salivazione o la pipì fatta sulla mano del papà, il pianto e il riso esprimono stati d'animo, sono bisogni primitivi, intenzioni premeditate dal corpo per manifestare comunicazione con qualcuno che il bambino avverte essere della sua stessa sostanza. A volte però, il meccanismo gioioso della comunicazione trova ostacoli. I bambini non piangono, non ridono, restano apparentemente insensibili alle carezze e al suono delle voci. Questi bambini sono definiti disabili. Gli adulti si disorientano, non si aspettano il silenzio, non sanno leggere gli occhi assenti, si spaventano del corpo che non vuole nutrirsi. Subentra la paura poiché il "noi" fusionale, che nella normalità si stempera con il tempo, in questi casi segue percorsi diversi: quel bambino da piccolo amore ancora cucito sulla pelle della madre rischia di diventare immediatamente un "corpo estraneo" violentemente catapultato nell'emisfero della differenza. Quei bambini silenziosi si presentano al mondo nudi. Apparentemente anche la memoria genetica sembra aver obliato i segni dell'appartenenza. Eppure i loro corpi non fingono, non recitano un copione secondo regola ma trattengono dentro un mistero: a volte sembrano rapiti da visioni spaventose, altre volte sono immersi in una contemplazione profonda dalla quale siamo esclusi. Il dolore per l'esclusione, la nostra impossibilità di accedere al silenzio profondo, i terremoti del cervello non pronto a sintonizzarsi o ad appartenere al mondo dei normali ci fa imprecare contro il cielo. Vi sono molte cose che accomunano gli esseri umani, tra questi tre sono vitali: bisogno di dormire, di nutrirsi e d'amore. Al bambino si chiede di rappresentare, si vorrebbe una chiara manifestazione del suo "io". Vorremmo da lui un riconoscimento della spaccatura del mondo: da una parte il sé, dall'altra il noi. Da un lato il palcoscenico che prevede gli altri come spettatori, da un altro lato l'attore. Il percorso è lungo e tortuoso, perciò ci spaventiamo se il piccolo non si separa da noi, se non rispetta le tappe ordinarie. Quando un ostacolo s'insinua tra i bisogni e la capacità d'agire per soddisfare le proprie esigenze, ci troviamo di fronte ad una reale debolezza che può attaccare il corpo e la mente.File | Dimensione | Formato | |
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