Le chiamano ¿guerre dimenticate¿, conflitti che nascono e proseguono ai margini del villaggio globale. Un'etichetta che, nel momento stesso in cui viene utilizzata per individuare indistintamente ¿tutto ciò di cui non si parla¿, svela la sua superficialità. Conflitti più ignorati che dimenticati, considerando che se la dimenticanza è spesso involontaria, quello di ignorare qualcosa è sempre un atto consapevole. Conflitti che, sporadicamente, ricordano la loro presenza, magari in seguito ad un episodio di particolare violenza, per poi ricadere nel silenzio. Raccontare minuziosamente i dettagli dell'operazione svolta dall'esercito russo nel teatro di Mosca non vuol dire spiegare le cause del conflitto ceceno, mostrare nei più svariati programmi televisivi le immagini dei bambini che muoiono di fame nel Darfur sudanese non vuol dire spiegare le cause profonde di una guerra civile senza il rischio di incorrere in stereotipi terzomondisti. Raccontare le proteste dei monaci in Birmania senza dar conto di ¿com'è andata a finire¿ manifestazioni e violenze non corrisponde a un'informazione che possa definirsi completa. Sono stragi e massacri descritti in ogni minimo dettaglio, ma pur sempre fatti isolati tra loro. Se lo scopo del fare informazione è creare consapevolezza e produrre conoscenza, non è sicuramente questa la via per raggiungerlo. L'obiettivo di questo lavoro è dimostrare che parlare di guerre dimenticate, in una società come la nostra, fitta di canali informativi, non è la strada giusta per raccontare gli ultimi sviluppi del giornalismo di guerra. Certo, siamo di fronte a un'informazione schizofrenica e altalenante, che si occupa per brevi periodi di un conflitto per poi lasciarlo al suo destino e guardare altrove. Sono brevi flash informativi, notizie che invecchiano troppo in fretta, concetti che difficilmente vengono collegati tra loro per offrire ai lettori un racconto uniforme e comprensibile. Guerre più ignorate che dimenticate, per motivi giornalistici, politici, economici. Ma se il racconto di un evento risulta legato a doppio filo alle dinamiche internazionali, giocano un ruolo fondamentale anche quelle interne allo stesso mezzo di informazione. Si è scelto di analizzare come tre conflitti, molto diversi tra loro, sono stati raccontati dalla carta stampata. Tre i quotidiani italiani presi in considerazione: il Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa; tre i conflitti analizzati: la lunga guerra civile in Sudan, la Birmania con la sua rivoluzione zafferano del settembre 2007, la Cecenia con l'assassinio della giornalista Anna Politkovskaya. Prenderemo in considerazione il numero di articoli pubblicati, la loro posizione nel giornale, il loro linguaggio, i reportage e gli stereotipi. Non tutto quello che si legge è informazione, scrive Giulietto Chiesa: esistono esempi a sostegno di questa tesi, ma esistono anche buone abitudini, ancora presenti nel giornalismo italiano, che non vogliamo ignorare. Per questo abbiamo provato a inserire all'interno di questo lavoro anche le voci dei giornalisti: Ettore Mo, storico corrispondente del Corriere della Sera, Maso Notarianni, direttore del sito di informazione giornalistica Peacereporter, Domenico Quirico, corrispondente da Parigi per La Stampa, esperto del continente africano. Le loro considerazioni sono state un'importante traccia e un fondamentale contrappeso a un'analisi che è stata pur sempre portata avanti dall'esterno delle redazioni, dalla parte del lettore.
GUERRE IGNORATE, RACCONTI INCOMPIUTI. I conflitti in Birmania, Cecenia e Sudan fra le pagine di tre quotidiani italiani
FAGNOLA, ELISABETTA
2009/2010
Abstract
Le chiamano ¿guerre dimenticate¿, conflitti che nascono e proseguono ai margini del villaggio globale. Un'etichetta che, nel momento stesso in cui viene utilizzata per individuare indistintamente ¿tutto ciò di cui non si parla¿, svela la sua superficialità. Conflitti più ignorati che dimenticati, considerando che se la dimenticanza è spesso involontaria, quello di ignorare qualcosa è sempre un atto consapevole. Conflitti che, sporadicamente, ricordano la loro presenza, magari in seguito ad un episodio di particolare violenza, per poi ricadere nel silenzio. Raccontare minuziosamente i dettagli dell'operazione svolta dall'esercito russo nel teatro di Mosca non vuol dire spiegare le cause del conflitto ceceno, mostrare nei più svariati programmi televisivi le immagini dei bambini che muoiono di fame nel Darfur sudanese non vuol dire spiegare le cause profonde di una guerra civile senza il rischio di incorrere in stereotipi terzomondisti. Raccontare le proteste dei monaci in Birmania senza dar conto di ¿com'è andata a finire¿ manifestazioni e violenze non corrisponde a un'informazione che possa definirsi completa. Sono stragi e massacri descritti in ogni minimo dettaglio, ma pur sempre fatti isolati tra loro. Se lo scopo del fare informazione è creare consapevolezza e produrre conoscenza, non è sicuramente questa la via per raggiungerlo. L'obiettivo di questo lavoro è dimostrare che parlare di guerre dimenticate, in una società come la nostra, fitta di canali informativi, non è la strada giusta per raccontare gli ultimi sviluppi del giornalismo di guerra. Certo, siamo di fronte a un'informazione schizofrenica e altalenante, che si occupa per brevi periodi di un conflitto per poi lasciarlo al suo destino e guardare altrove. Sono brevi flash informativi, notizie che invecchiano troppo in fretta, concetti che difficilmente vengono collegati tra loro per offrire ai lettori un racconto uniforme e comprensibile. Guerre più ignorate che dimenticate, per motivi giornalistici, politici, economici. Ma se il racconto di un evento risulta legato a doppio filo alle dinamiche internazionali, giocano un ruolo fondamentale anche quelle interne allo stesso mezzo di informazione. Si è scelto di analizzare come tre conflitti, molto diversi tra loro, sono stati raccontati dalla carta stampata. Tre i quotidiani italiani presi in considerazione: il Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa; tre i conflitti analizzati: la lunga guerra civile in Sudan, la Birmania con la sua rivoluzione zafferano del settembre 2007, la Cecenia con l'assassinio della giornalista Anna Politkovskaya. Prenderemo in considerazione il numero di articoli pubblicati, la loro posizione nel giornale, il loro linguaggio, i reportage e gli stereotipi. Non tutto quello che si legge è informazione, scrive Giulietto Chiesa: esistono esempi a sostegno di questa tesi, ma esistono anche buone abitudini, ancora presenti nel giornalismo italiano, che non vogliamo ignorare. Per questo abbiamo provato a inserire all'interno di questo lavoro anche le voci dei giornalisti: Ettore Mo, storico corrispondente del Corriere della Sera, Maso Notarianni, direttore del sito di informazione giornalistica Peacereporter, Domenico Quirico, corrispondente da Parigi per La Stampa, esperto del continente africano. Le loro considerazioni sono state un'importante traccia e un fondamentale contrappeso a un'analisi che è stata pur sempre portata avanti dall'esterno delle redazioni, dalla parte del lettore.File | Dimensione | Formato | |
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