I reperti archeologici in materia dura di origine animale rappresentano una testimonianza preziosa dei rapporti intercorsi tra popolazioni umane e il loro ambiente: in particolare, essi consentono di ricostruire aspetti legati all’utilizzo di materie prime, alla loro provenienza, alle tecnologie di produzione utilizzate, fino a comprendere il loro valore simbolico e sociale per la comunità umana di riferimento. Pertanto, qualora tali reperti siano custoditi nei musei, possono veicolare la comunicazione della storia di un territorio al grande pubblico. Affinché tale comunicazione sia efficace, la ricerca scientifica sulle collezioni che rappresentano tale biocultural heritage deve essere volta ad estrapolare gli aspetti salienti che legano l’oggetto all’ambiente. Questo progetto di tesi magistrale è stato svolto nell’ambito di una convenzione di ricerca tra Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi e i Musei Reali di Torino (Museo di Antichità) che ha come oggetto lo studio scientifico di una selezione di materiali di origine biologica presenti nelle collezioni dei Musei. In particolare, ci si è concentrati su reperti longobardi provenienti da importanti contesti archeologici piemontesi del V, VI e VII secolo. Si tratta di oggetti legati alla vita quotidiana, quali pettini, bottoni, aghi, placche lavorate e semilavorate, realizzati con grande cura dagli artigiani longobardi a partire da materie dure di origine animale e rinvenuti in contesti funerari. Per questi reperti, il processo di lavorazione ha obliterato eventuali caratteristiche diagnostiche morfologiche che potrebbero consentirne l’identificazione, pertanto gli oggetti sono tutti catalogati quali “manufatti ossei”. In tal modo si perde la possibilità di esplorare le connessioni tra i processi di produzione delle comunità longobarde e il territorio. L’impossibilità di poter effettuare una corretta identificazione tassonomica su base morfologica ha portato allo sviluppo di approcci biomolecolari quali la Zooarchaeology by Mass Spectrometry (ZooMS), un approccio di screening rapido basato sull’analisi di peptidi taxon-specifici del collagene, la principale componente proteica di materie dure quali l’osso, il palco, l’avorio. Tradizionalmente, il metodo richiede un campionamento, sebbene minimamente invasivo (prelievo di un chip pari a 5-50 mg), che però è spesso impossibile nel caso di reperti museali, a causa delle norme di tutela dei beni culturali, volte a preservare l’integrità estetica del manufatto. Recenti sviluppi metodologici hanno portato all’implementazione di nuove tecniche di campionamento che consentano l’estrazione del collagene in modo non invasivo. Questa ricerca ha permesso di confrontare due approcci non invasivi, entrambi basati sull’estrazione triboelettrica del collagene e denominati “PVC eraser” e “plastic bag”, con il metodo di campionamento tradizionale. I risultati ottenuti hanno dimostrato che tra i campionamenti non invasivi, il migliore per i reperti oggetto di indagine è stato il “PVC eraser”, ma quello tradizionale (chip) è stato il più efficace e ha permesso l’identificazione tassonomica di 38 dei 44 frammenti analizzati come cervidi selvatici e/o bovidi. Nel complesso, i risultati confermano la grande potenzialità del metodo ZooMS per l’identificazione dei reperti museali in materia dura animale e le implicazioni inerenti lo sfruttamento delle materie prime.
'Museomics': analisi paleoproteomiche di reperti Longobardi in materia dura di origine animale provenienti dalle collezioni dei Musei Reali di Torino
HERITIER, ERIKA
2020/2021
Abstract
I reperti archeologici in materia dura di origine animale rappresentano una testimonianza preziosa dei rapporti intercorsi tra popolazioni umane e il loro ambiente: in particolare, essi consentono di ricostruire aspetti legati all’utilizzo di materie prime, alla loro provenienza, alle tecnologie di produzione utilizzate, fino a comprendere il loro valore simbolico e sociale per la comunità umana di riferimento. Pertanto, qualora tali reperti siano custoditi nei musei, possono veicolare la comunicazione della storia di un territorio al grande pubblico. Affinché tale comunicazione sia efficace, la ricerca scientifica sulle collezioni che rappresentano tale biocultural heritage deve essere volta ad estrapolare gli aspetti salienti che legano l’oggetto all’ambiente. Questo progetto di tesi magistrale è stato svolto nell’ambito di una convenzione di ricerca tra Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi e i Musei Reali di Torino (Museo di Antichità) che ha come oggetto lo studio scientifico di una selezione di materiali di origine biologica presenti nelle collezioni dei Musei. In particolare, ci si è concentrati su reperti longobardi provenienti da importanti contesti archeologici piemontesi del V, VI e VII secolo. Si tratta di oggetti legati alla vita quotidiana, quali pettini, bottoni, aghi, placche lavorate e semilavorate, realizzati con grande cura dagli artigiani longobardi a partire da materie dure di origine animale e rinvenuti in contesti funerari. Per questi reperti, il processo di lavorazione ha obliterato eventuali caratteristiche diagnostiche morfologiche che potrebbero consentirne l’identificazione, pertanto gli oggetti sono tutti catalogati quali “manufatti ossei”. In tal modo si perde la possibilità di esplorare le connessioni tra i processi di produzione delle comunità longobarde e il territorio. L’impossibilità di poter effettuare una corretta identificazione tassonomica su base morfologica ha portato allo sviluppo di approcci biomolecolari quali la Zooarchaeology by Mass Spectrometry (ZooMS), un approccio di screening rapido basato sull’analisi di peptidi taxon-specifici del collagene, la principale componente proteica di materie dure quali l’osso, il palco, l’avorio. Tradizionalmente, il metodo richiede un campionamento, sebbene minimamente invasivo (prelievo di un chip pari a 5-50 mg), che però è spesso impossibile nel caso di reperti museali, a causa delle norme di tutela dei beni culturali, volte a preservare l’integrità estetica del manufatto. Recenti sviluppi metodologici hanno portato all’implementazione di nuove tecniche di campionamento che consentano l’estrazione del collagene in modo non invasivo. Questa ricerca ha permesso di confrontare due approcci non invasivi, entrambi basati sull’estrazione triboelettrica del collagene e denominati “PVC eraser” e “plastic bag”, con il metodo di campionamento tradizionale. I risultati ottenuti hanno dimostrato che tra i campionamenti non invasivi, il migliore per i reperti oggetto di indagine è stato il “PVC eraser”, ma quello tradizionale (chip) è stato il più efficace e ha permesso l’identificazione tassonomica di 38 dei 44 frammenti analizzati come cervidi selvatici e/o bovidi. Nel complesso, i risultati confermano la grande potenzialità del metodo ZooMS per l’identificazione dei reperti museali in materia dura animale e le implicazioni inerenti lo sfruttamento delle materie prime.File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14240/69021