Il Paese del Sol levante sta scoprendo le start-up, impropriamente sinonimo di "matricola" nel linguaggio di borsa e che la nota enciclopedia Treccani va a definire come la fase iniziale di avvio delle attività di una nuova impresa, di un’impresa appena costituita o di un’impresa che si è appena quotata in borsa. Il termine di derivazione anglosassone significa 'partire, mettersi in moto'1. Nonostante il carattere innovativo di tali imprese, tuttavia, il Giappone non risulta essere tra i Paesi in cui le neonate aziende hanno trovato fino ad oggi terreno maggiormente fertile, al contrario. Ciò è dovuto non solo all'eredità di una cultura aziendale tuttora di impronta prevalentemente conservativa e tradizionalista nonostante il processo di globalizzazione che ha interessato questo secolo, ma anche in virtù del fatto che tali imprese, in fase iniziale, presentino un rischio effettivamente più elevato rispetto a quelle già consolidate sul mercato; rischio che esalta tanto le prospettive di guadagno quanto la possibilità di perdita e, come è facile dedurre, la prospettiva del fallimento per un Paese che ad oggi risulta una delle più grandi economie del pianeta, non è facilmente tollerabile. Questa particolare diffidenza nei confronti delle start-up sembrerebbe essere dovuta soprattutto al modello economico giapponese, dominato dai cosiddetti conglomerati, vale a dire grandi corporazioni che operano ad ampio raggio in innumerevoli settori: dalla finanza al retail, dall'ambito delle costruzioni alle telecomunicazioni, dall’industria pesante alla meccanica e all’elettronica (basti pensare a colossi quali SoftBank, Rakuten, Ntt, Sony o Honda, per nominarne alcuni). Un modello che ha certamente portato il Giappone ad essere oggi la terza più grande economia del pianeta, ma anche a scontare il prezzo di alcuni ritardi che si trova a dover colmare per continuare ad essere competitivo sul mercato globale. Ritardi che sono soprattutto di tipo culturale, prima di tutto prendendone coscienza ed è ciò che sta avvenendo in questo momento nel contesto giapponese, come è stato confermato da Yoshi Ishii, director for new business policy office economic and industrial policy bureau del ministry of Economy, Trade and Industry (Meti) del governo di Tokyo, presentando lo scenario giapponese in occasione dell’Italian Innovation Day che si è tenuto nella capitale giapponese lo scorso 30 maggio. Uno scenario non molto diverso sembra interessare il nostro Paese: titoli come "l'Italia non è un paese per start up" o ancora "l'Italia non è ancora una start up nation" sono sempre più ridondanti in Internet, articoli nei quali l'esperienza imprenditoriale italiana appare affetta da un dilettantismo preoccupante e soprattutto protesa verso una corsa all’imitazione dei modelli d’importazione che già stanno declinando nel loro originario ambiente di incubazione. Appare chiaro come piccole e medie imprese italiane e giapponesi, nonostante presentino un grande spirito d’innovazione, propongano prodotti di eccellenza e siano portatrici di antichi saperi, presentino una matrice comune nel saper creare, ma soprattutto una criticità comune nel non riuscire ad emergere al di fuori del proprio contesto. Attraverso il mio lavoro, cercherò dunque di fornire un panorama più chiaro in merito alla situazione delle start-up rispettivamente in Giappone ed Italia, con l'obiettivo di rispondere a quesiti quali: è proprio vero che l’Italia non è un paese per start-up? I ritardi culturali

START-UP: ITALIA E GIAPPONE A CONFRONTO

PRAMOTTON, ALESSIA
2021/2022

Abstract

Il Paese del Sol levante sta scoprendo le start-up, impropriamente sinonimo di "matricola" nel linguaggio di borsa e che la nota enciclopedia Treccani va a definire come la fase iniziale di avvio delle attività di una nuova impresa, di un’impresa appena costituita o di un’impresa che si è appena quotata in borsa. Il termine di derivazione anglosassone significa 'partire, mettersi in moto'1. Nonostante il carattere innovativo di tali imprese, tuttavia, il Giappone non risulta essere tra i Paesi in cui le neonate aziende hanno trovato fino ad oggi terreno maggiormente fertile, al contrario. Ciò è dovuto non solo all'eredità di una cultura aziendale tuttora di impronta prevalentemente conservativa e tradizionalista nonostante il processo di globalizzazione che ha interessato questo secolo, ma anche in virtù del fatto che tali imprese, in fase iniziale, presentino un rischio effettivamente più elevato rispetto a quelle già consolidate sul mercato; rischio che esalta tanto le prospettive di guadagno quanto la possibilità di perdita e, come è facile dedurre, la prospettiva del fallimento per un Paese che ad oggi risulta una delle più grandi economie del pianeta, non è facilmente tollerabile. Questa particolare diffidenza nei confronti delle start-up sembrerebbe essere dovuta soprattutto al modello economico giapponese, dominato dai cosiddetti conglomerati, vale a dire grandi corporazioni che operano ad ampio raggio in innumerevoli settori: dalla finanza al retail, dall'ambito delle costruzioni alle telecomunicazioni, dall’industria pesante alla meccanica e all’elettronica (basti pensare a colossi quali SoftBank, Rakuten, Ntt, Sony o Honda, per nominarne alcuni). Un modello che ha certamente portato il Giappone ad essere oggi la terza più grande economia del pianeta, ma anche a scontare il prezzo di alcuni ritardi che si trova a dover colmare per continuare ad essere competitivo sul mercato globale. Ritardi che sono soprattutto di tipo culturale, prima di tutto prendendone coscienza ed è ciò che sta avvenendo in questo momento nel contesto giapponese, come è stato confermato da Yoshi Ishii, director for new business policy office economic and industrial policy bureau del ministry of Economy, Trade and Industry (Meti) del governo di Tokyo, presentando lo scenario giapponese in occasione dell’Italian Innovation Day che si è tenuto nella capitale giapponese lo scorso 30 maggio. Uno scenario non molto diverso sembra interessare il nostro Paese: titoli come "l'Italia non è un paese per start up" o ancora "l'Italia non è ancora una start up nation" sono sempre più ridondanti in Internet, articoli nei quali l'esperienza imprenditoriale italiana appare affetta da un dilettantismo preoccupante e soprattutto protesa verso una corsa all’imitazione dei modelli d’importazione che già stanno declinando nel loro originario ambiente di incubazione. Appare chiaro come piccole e medie imprese italiane e giapponesi, nonostante presentino un grande spirito d’innovazione, propongano prodotti di eccellenza e siano portatrici di antichi saperi, presentino una matrice comune nel saper creare, ma soprattutto una criticità comune nel non riuscire ad emergere al di fuori del proprio contesto. Attraverso il mio lavoro, cercherò dunque di fornire un panorama più chiaro in merito alla situazione delle start-up rispettivamente in Giappone ed Italia, con l'obiettivo di rispondere a quesiti quali: è proprio vero che l’Italia non è un paese per start-up? I ritardi culturali
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