«Quale sarà il futuro dell'immaginazione individuale in quella che si usa chiamare la ¿civiltà dell'immagine¿? Il potere di evocare immagini in assenza continuerà a svilupparsi in un'umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate? » Scriveva così Italo Calvino nel 1985 in una delle sei Lezioni Americane, un insieme di appunti e spunti per orientarsi nelle trasformazioni che di lì a poco avrebbero interessato, a suo avviso, il nuovo millennio. La trasformazione a cui fa riferimento qui l'autore è quella che avrebbe colpito l'immagine e la capacità di quest'ultima di trovare rilievo in quella che venne battezzata ¿civiltà dell'immagine¿; ed è proprio la nostra capacità di evocare immagini a partire dalla nostra memoria e gli innumerevoli possibili altrimenti dettati dall'individualità di ciascuno di noi, a rappresentare il filo conduttore di questo lavoro di ricerca, a partire dal principio semantico per cui «quando si vuole provare la mancanza di senso delle locuzioni della metafisica spesso si dice ¿Non potrei immaginare il contrario di ciò¿. Ebbene, se non posso immaginare come sarebbe altrimenti allora non posso neppure immaginare che è così». La scelta di condurre questo esperimento nasce dal desiderio di indagare in che modo ci si debba e ci si possa opportunamente avvicinare all'immagine, entrando in relazione con essa, a fronte proprio di questa trasformazione prescritta dalla sempre maggior esposizione della società odierna all'immagine, ed ha origine dall'approssimarsi ad una innovativa prospettiva delineata dallo studioso William J. Thomas Mitchell in merito al tema dell'efficacia delle immagini. La prospettiva di Mitchell si propone di presentare ai lettori nel saggio Che cosa vogliono le immagini? un esperimento mentale per mezzo del quale provare a pensare alle immagini non tanto come oggetti inerti del nostro sguardo, ma come soggetti animati dotati di personalità, bisogni e soprattutto desideri. Allo stesso modo ci proponiamo qui di ripercorrere la strada aperta da Mitchell, non tanto con l'obiettivo di provare a dare una risposta al suo così discusso quesito, quanto piuttosto con l'intento di rispondere ad una vera e propria provocazione. Il lavoro di ricerca consisterà in un esercizio di sociologia epistemica focalizzato su un particolare tipo di pratica del linguaggio, quella di chi ¿descrive¿ a parole ciò che osserva con gli occhi (Sormano, 2008). Le fotografie oggetto di osservazione non fungono qui da stimolo nei confronti dell'osservatore, ma rappresentano piuttosto un testo visuale in cui sia dato cogliere la natura e la varietà dei rapporti che nelle pratiche del linguaggio, qui assunte come unico oggetto di osservazione, si possono stabilire tra immagini e parole. Pur non essendo senza potere, però, le immagini potrebbero averne molto meno di quanto pensiamo, ed è proprio a partire dall'ipotesi che vi siano differenze nella modalità ed efficacia di comunicazione che verranno messe a confronto fotografia artistica ed immagine pubblicitaria, dal punto di vista della loro comunicabilità non tanto come oggetti d'osservazione, quanto piuttosto come soggetti a cui bisogna dare una voce, ponendo l'attenzione principalmente sulla volontà che questi tipi di immagine si presume siano in grado di esprimere, e spostando quindi la questione da ciò che le immagini fanno a ciò che esse vogliono, dal potere al desiderio.

CHE COSA VOGLIONO LE IMMAGINI? Forme di comunicazione visiva a confronto

LUCIANI, FRANCESCA
2011/2012

Abstract

«Quale sarà il futuro dell'immaginazione individuale in quella che si usa chiamare la ¿civiltà dell'immagine¿? Il potere di evocare immagini in assenza continuerà a svilupparsi in un'umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate? » Scriveva così Italo Calvino nel 1985 in una delle sei Lezioni Americane, un insieme di appunti e spunti per orientarsi nelle trasformazioni che di lì a poco avrebbero interessato, a suo avviso, il nuovo millennio. La trasformazione a cui fa riferimento qui l'autore è quella che avrebbe colpito l'immagine e la capacità di quest'ultima di trovare rilievo in quella che venne battezzata ¿civiltà dell'immagine¿; ed è proprio la nostra capacità di evocare immagini a partire dalla nostra memoria e gli innumerevoli possibili altrimenti dettati dall'individualità di ciascuno di noi, a rappresentare il filo conduttore di questo lavoro di ricerca, a partire dal principio semantico per cui «quando si vuole provare la mancanza di senso delle locuzioni della metafisica spesso si dice ¿Non potrei immaginare il contrario di ciò¿. Ebbene, se non posso immaginare come sarebbe altrimenti allora non posso neppure immaginare che è così». La scelta di condurre questo esperimento nasce dal desiderio di indagare in che modo ci si debba e ci si possa opportunamente avvicinare all'immagine, entrando in relazione con essa, a fronte proprio di questa trasformazione prescritta dalla sempre maggior esposizione della società odierna all'immagine, ed ha origine dall'approssimarsi ad una innovativa prospettiva delineata dallo studioso William J. Thomas Mitchell in merito al tema dell'efficacia delle immagini. La prospettiva di Mitchell si propone di presentare ai lettori nel saggio Che cosa vogliono le immagini? un esperimento mentale per mezzo del quale provare a pensare alle immagini non tanto come oggetti inerti del nostro sguardo, ma come soggetti animati dotati di personalità, bisogni e soprattutto desideri. Allo stesso modo ci proponiamo qui di ripercorrere la strada aperta da Mitchell, non tanto con l'obiettivo di provare a dare una risposta al suo così discusso quesito, quanto piuttosto con l'intento di rispondere ad una vera e propria provocazione. Il lavoro di ricerca consisterà in un esercizio di sociologia epistemica focalizzato su un particolare tipo di pratica del linguaggio, quella di chi ¿descrive¿ a parole ciò che osserva con gli occhi (Sormano, 2008). Le fotografie oggetto di osservazione non fungono qui da stimolo nei confronti dell'osservatore, ma rappresentano piuttosto un testo visuale in cui sia dato cogliere la natura e la varietà dei rapporti che nelle pratiche del linguaggio, qui assunte come unico oggetto di osservazione, si possono stabilire tra immagini e parole. Pur non essendo senza potere, però, le immagini potrebbero averne molto meno di quanto pensiamo, ed è proprio a partire dall'ipotesi che vi siano differenze nella modalità ed efficacia di comunicazione che verranno messe a confronto fotografia artistica ed immagine pubblicitaria, dal punto di vista della loro comunicabilità non tanto come oggetti d'osservazione, quanto piuttosto come soggetti a cui bisogna dare una voce, ponendo l'attenzione principalmente sulla volontà che questi tipi di immagine si presume siano in grado di esprimere, e spostando quindi la questione da ciò che le immagini fanno a ciò che esse vogliono, dal potere al desiderio.
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