This work aims to assess the ethical-political value of anthropotechnics, by questioning the link between exercises of subjectivation and institutional dynamics. The concept of “anthropotechnics” introduced by Peter Sloterdijk is characterized by a vast degree of elasticity, subsuming a wide range of phenomena under itself, united by the common reference to exercise and immunity. According to Sloterdijk, exercise itself is the key to comprehend both subjects and collectives, both described as bundles of exercises and repeated habits. Starting from Sloterdijk’s ideas, an internal genealogy will be conducted, to characterize the emergence of “anthropotechnics” within the philosopher, production, also pointing out some critical points. An external genealogy will be then conducted, to examine the affinities and similarities, both latent and manifest, between Sloterdijk’s concept and other authors’: Mauss’s techniques of the body; the process of civilization described by Elias; Bourdieu’s habitus and Husserl’s phenomenology of individual and collective habitualities. Then, starting from some remarks on North’s institutional change theory and Merleau-Ponty’s concept of institution, a step forward will be made, towards the evaluation of the political value of exercises. After the examination of Sloterdijk’s constructive proposal, rather modest indeed, the political character of exercise will be assessed by posing two questions: which is the nature of the link between exercise and mastery (and self-mastery)? Which is the relationship between the subject described as bundle of exercises and the unconscious? Is here at stake a comparison both with Foucault’s technologies of the self, and with psychoanalysis, as a strange anthropotechnic, as a practice to boost the immunity of subjects and collectives from the absolutism of identity politics. That said, starting from these various cues, the question of the political value of exercise will be finally raised: if subjects and institutions are bundles of exercise, and if it’s possible, by overwriting habits with habits, to change one’s own life, how to think institutional change?

Con il presente lavoro si propone di vagliare la portata etico-politica delle antropotecniche, interrogando il legame tra esercizi di soggettivazione e dinamiche istituzionali. Il concetto di “antropotecnica” circoscritto da Peter Sloterdijk si segnala per la sua grande elasticità, tale da comprendere in sé, in uno spettro amplissimo, i fenomeni più disparati, tutti accomunati dal duplice riferimento all’esercizio e all’immunità. L’esercizio, infatti, inteso come operazione abitudinaria ripetuta che concorre a incrementare o mantenere una determinata qualità del praticante si configura in Sloterdijk come la chiave per leggere tanto i soggetti, concepibili come portatori delle proprie sequenze di esercizi, quanto i collettivi, intesi come fasci di antropotecniche trasmesse e condivise. A partire dalle intuizioni di Sloterdijk si tratta, in primo luogo, di condurre un’operazione genealogica interna alla stessa produzione del filosofo, per cogliere l’emersione del concetto e per sottolineare alcune possibili criticità. A ciò segue un ampliamento dell’operazione genealogica verso l’esterno, nel tentativo di delineare le provenienze, manifeste o latenti, reali o possibili, della concettualità sloterdijkiana. Partendo dall’idea che in Sloterdijk sia poco sottolineato il lato sociale e socialmente determinato dell’instaurarsi delle antropotecniche, si tratta di contaminare la prospettiva dell’antropotecnologia generale con le riflessioni di altri autori sull’abitudine: Mauss e le “tecniche del corpo”; Elias e la sua descrizione del “processo di civilizzazione”; Bourdieu sociologo dell’habitus; Husserl fenomenologo delle abitualità individuali e collettive. Riscontrata l’aria di famiglia, si tratta poi di cominciare a valutare la politicità intrinseca alla dimensione dell’esercizio cogliendo lo spunto offerto da due prospettive a prima vista eterogenee: la teoria del cambiamento istituzionale di North e la nozione fenomenologica di “istituzione” proposta da Merleau-Ponty. Dopo aver esaminato criticamente la pars construens, invero esigua, della prospettiva sloterdijkiana, la politicità di antropotecniche ed esercizi viene esaminata a partire da due domande fondamentali: qual è il rapporto tra esercizio e padronanza? E se il soggetto è un fascio di esercizi, in che rapporto sta con il soggetto dell’inconscio? È qui in gioco tanto un confronto tra le antropotecniche e le tecnologie del sé descritte da Foucault, quanto con quella strana antropotecnica che è la psicoanalisi, la quale si configura, in virtù della sua implicita teoria del politico, come pratica in grado di immunizzare i soggetti e i collettivi dall’assolutismo delle dinamiche identitarie. A partire da questo insieme di spunti, si procede infine a porre la questione della politicità dell’esercizio: se soggetti e istituzioni sono concrezioni di esercizi, e se, sovrascrivendo le abitudini con altre abitudini, è possibile “cambiare la propria vita”, com’è possibile “cambiare le istituzioni”?

Antropotecnica e politica: esercizi di soggettivazione e dinamiche istituzionali.

VALSECCHI, LUCA
2021/2022

Abstract

Con il presente lavoro si propone di vagliare la portata etico-politica delle antropotecniche, interrogando il legame tra esercizi di soggettivazione e dinamiche istituzionali. Il concetto di “antropotecnica” circoscritto da Peter Sloterdijk si segnala per la sua grande elasticità, tale da comprendere in sé, in uno spettro amplissimo, i fenomeni più disparati, tutti accomunati dal duplice riferimento all’esercizio e all’immunità. L’esercizio, infatti, inteso come operazione abitudinaria ripetuta che concorre a incrementare o mantenere una determinata qualità del praticante si configura in Sloterdijk come la chiave per leggere tanto i soggetti, concepibili come portatori delle proprie sequenze di esercizi, quanto i collettivi, intesi come fasci di antropotecniche trasmesse e condivise. A partire dalle intuizioni di Sloterdijk si tratta, in primo luogo, di condurre un’operazione genealogica interna alla stessa produzione del filosofo, per cogliere l’emersione del concetto e per sottolineare alcune possibili criticità. A ciò segue un ampliamento dell’operazione genealogica verso l’esterno, nel tentativo di delineare le provenienze, manifeste o latenti, reali o possibili, della concettualità sloterdijkiana. Partendo dall’idea che in Sloterdijk sia poco sottolineato il lato sociale e socialmente determinato dell’instaurarsi delle antropotecniche, si tratta di contaminare la prospettiva dell’antropotecnologia generale con le riflessioni di altri autori sull’abitudine: Mauss e le “tecniche del corpo”; Elias e la sua descrizione del “processo di civilizzazione”; Bourdieu sociologo dell’habitus; Husserl fenomenologo delle abitualità individuali e collettive. Riscontrata l’aria di famiglia, si tratta poi di cominciare a valutare la politicità intrinseca alla dimensione dell’esercizio cogliendo lo spunto offerto da due prospettive a prima vista eterogenee: la teoria del cambiamento istituzionale di North e la nozione fenomenologica di “istituzione” proposta da Merleau-Ponty. Dopo aver esaminato criticamente la pars construens, invero esigua, della prospettiva sloterdijkiana, la politicità di antropotecniche ed esercizi viene esaminata a partire da due domande fondamentali: qual è il rapporto tra esercizio e padronanza? E se il soggetto è un fascio di esercizi, in che rapporto sta con il soggetto dell’inconscio? È qui in gioco tanto un confronto tra le antropotecniche e le tecnologie del sé descritte da Foucault, quanto con quella strana antropotecnica che è la psicoanalisi, la quale si configura, in virtù della sua implicita teoria del politico, come pratica in grado di immunizzare i soggetti e i collettivi dall’assolutismo delle dinamiche identitarie. A partire da questo insieme di spunti, si procede infine a porre la questione della politicità dell’esercizio: se soggetti e istituzioni sono concrezioni di esercizi, e se, sovrascrivendo le abitudini con altre abitudini, è possibile “cambiare la propria vita”, com’è possibile “cambiare le istituzioni”?
ITA
This work aims to assess the ethical-political value of anthropotechnics, by questioning the link between exercises of subjectivation and institutional dynamics. The concept of “anthropotechnics” introduced by Peter Sloterdijk is characterized by a vast degree of elasticity, subsuming a wide range of phenomena under itself, united by the common reference to exercise and immunity. According to Sloterdijk, exercise itself is the key to comprehend both subjects and collectives, both described as bundles of exercises and repeated habits. Starting from Sloterdijk’s ideas, an internal genealogy will be conducted, to characterize the emergence of “anthropotechnics” within the philosopher, production, also pointing out some critical points. An external genealogy will be then conducted, to examine the affinities and similarities, both latent and manifest, between Sloterdijk’s concept and other authors’: Mauss’s techniques of the body; the process of civilization described by Elias; Bourdieu’s habitus and Husserl’s phenomenology of individual and collective habitualities. Then, starting from some remarks on North’s institutional change theory and Merleau-Ponty’s concept of institution, a step forward will be made, towards the evaluation of the political value of exercises. After the examination of Sloterdijk’s constructive proposal, rather modest indeed, the political character of exercise will be assessed by posing two questions: which is the nature of the link between exercise and mastery (and self-mastery)? Which is the relationship between the subject described as bundle of exercises and the unconscious? Is here at stake a comparison both with Foucault’s technologies of the self, and with psychoanalysis, as a strange anthropotechnic, as a practice to boost the immunity of subjects and collectives from the absolutism of identity politics. That said, starting from these various cues, the question of the political value of exercise will be finally raised: if subjects and institutions are bundles of exercise, and if it’s possible, by overwriting habits with habits, to change one’s own life, how to think institutional change?
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.14240/52742