Il presente lavoro è stato sviluppato con l’obiettivo ultimo di cercare di illustrare gli elementi che compongono la struttura del delitto tentato, rubricato all’articolo 56 del Codice Rocco, in chiave storicistica ed alla luce delle varie teorie che si sono sviluppate ed alternate nell’ambito dottrinale e giurisprudenziale muovendo dai tempi più remoti del diritto romano fino ad arrivare alla formulazione fascista del 1930 alla luce degli insegnamenti impartiti da Romagnosi e Carrara. Il codice Zanardelli all’articolo 61 individuava l’ipotesi di tentativo nel caso in cui ”colui il quale con il fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l’esecuzione, ma per circostanze indipendenti dalla sua volontà non compie tutto ciò che è necessario alla consumazione di esso”. La formula utilizzata permetteva dunque di perimetrare l’area del penalmente rilevante agli atti esecutivi, facendone fuoriuscire quelli preparatori, a differenza, di quanto accade all’interno del Codice Rocco il quale, improntato ad una concezione meno personalistica e più pubblicistica, introduce una serie di novità che si riflettono in una maggiore anticipazione della punibilità in risposta alla necessità di perseguire al meglio le esigenze di prevenzione generale, nonché in un notevole inasprimento della risposta sanzionatoria. Per questa esatta ragione il Codice Rocco fonda la nuova fattispecie di tentativo su due elementi necessariamente concorrenti: univocità ed idoneità degli atti. Stante la diacronia del reato, il quale vede la sua realizzazione scandita in varie fasi ben definite ma non per ciò solo idonee a rientrare nell’area del penalmente rilevante, il dibattito più controverso ruotante intorno alla figura del delitto tentato, che per secoli ha animato gli interpreti, è stato quello relativo all’individuazione del momento di inizio dell’attività punibile. A tal proposito il capitolo secondo analizza le fasi dell’iter criminis: a partire dal concetto di conatus proximus e di conatus remotus si procede all’analisi delle teorie che si sono contese la scena dottrinale analizzando la figura del conato in chiave oggettivistica e soggettivistica fino all’elaborazione di una terza teoria: la teoria mista volta all’individuazione del momento a partire dal quale una determinata condotta può dirsi meritevole di punizione. I compilatori del codice Rocco, sulla scorta degli insegnamenti trasmessi da Francesco Carrara, decisero ben presto di saldare la punibilità del tentativo a dei criteri di più solida natura, rispetto a quelli utilizzati dal Codice Zanardelli, quali il compimento di atti idonei e diretti in modo non equivoco alla realizzazione di un delitto. A partire dal terzo capitolo si procede all’analisi degli elementi oggettivi, di cui fanno parte il concetto di idoneità degli atti e la nozione di univocità, e dell’elemento soggettivo in cui viene analizzata la formula cardine in virtù della quale “il dolo del delitto tentato coincide con il dolo del delitto consumato” alla luce dell’incompatibilità con l’imputazione colposa. Si conclude con un esempio in concreto di valutazione probatoria dell’elemento soggettivo prendendo come punto di partenza la fattispecie di cui all’articolo 575 c.p. declinata, in combinato disposto con l’articolo 56 c.p., nella fattispecie di tentato omicidio.
LA STRUTTURA DEL DELITTO TENTATO
SERRA, ROBERTA
2020/2021
Abstract
Il presente lavoro è stato sviluppato con l’obiettivo ultimo di cercare di illustrare gli elementi che compongono la struttura del delitto tentato, rubricato all’articolo 56 del Codice Rocco, in chiave storicistica ed alla luce delle varie teorie che si sono sviluppate ed alternate nell’ambito dottrinale e giurisprudenziale muovendo dai tempi più remoti del diritto romano fino ad arrivare alla formulazione fascista del 1930 alla luce degli insegnamenti impartiti da Romagnosi e Carrara. Il codice Zanardelli all’articolo 61 individuava l’ipotesi di tentativo nel caso in cui ”colui il quale con il fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l’esecuzione, ma per circostanze indipendenti dalla sua volontà non compie tutto ciò che è necessario alla consumazione di esso”. La formula utilizzata permetteva dunque di perimetrare l’area del penalmente rilevante agli atti esecutivi, facendone fuoriuscire quelli preparatori, a differenza, di quanto accade all’interno del Codice Rocco il quale, improntato ad una concezione meno personalistica e più pubblicistica, introduce una serie di novità che si riflettono in una maggiore anticipazione della punibilità in risposta alla necessità di perseguire al meglio le esigenze di prevenzione generale, nonché in un notevole inasprimento della risposta sanzionatoria. Per questa esatta ragione il Codice Rocco fonda la nuova fattispecie di tentativo su due elementi necessariamente concorrenti: univocità ed idoneità degli atti. Stante la diacronia del reato, il quale vede la sua realizzazione scandita in varie fasi ben definite ma non per ciò solo idonee a rientrare nell’area del penalmente rilevante, il dibattito più controverso ruotante intorno alla figura del delitto tentato, che per secoli ha animato gli interpreti, è stato quello relativo all’individuazione del momento di inizio dell’attività punibile. A tal proposito il capitolo secondo analizza le fasi dell’iter criminis: a partire dal concetto di conatus proximus e di conatus remotus si procede all’analisi delle teorie che si sono contese la scena dottrinale analizzando la figura del conato in chiave oggettivistica e soggettivistica fino all’elaborazione di una terza teoria: la teoria mista volta all’individuazione del momento a partire dal quale una determinata condotta può dirsi meritevole di punizione. I compilatori del codice Rocco, sulla scorta degli insegnamenti trasmessi da Francesco Carrara, decisero ben presto di saldare la punibilità del tentativo a dei criteri di più solida natura, rispetto a quelli utilizzati dal Codice Zanardelli, quali il compimento di atti idonei e diretti in modo non equivoco alla realizzazione di un delitto. A partire dal terzo capitolo si procede all’analisi degli elementi oggettivi, di cui fanno parte il concetto di idoneità degli atti e la nozione di univocità, e dell’elemento soggettivo in cui viene analizzata la formula cardine in virtù della quale “il dolo del delitto tentato coincide con il dolo del delitto consumato” alla luce dell’incompatibilità con l’imputazione colposa. Si conclude con un esempio in concreto di valutazione probatoria dell’elemento soggettivo prendendo come punto di partenza la fattispecie di cui all’articolo 575 c.p. declinata, in combinato disposto con l’articolo 56 c.p., nella fattispecie di tentato omicidio.File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14240/34577