Quando una donna, in stato di morte cerebrale, risulta essere incinta, la prassi consiste nel mantenere le sue funzioni vitali attive tramite l’utilizzo di macchine vicarianti, in modo tale che il feto in grembo raggiunga uno stadio di sviluppo tale da poter sopravvivere anche al di fuori del corpo materno. Quando questo stadio di sviluppo viene raggiunto, si procede con un cesareo post mortem. Solo allora le macchine vicarianti che hanno mantenuto, fino a quel momento, le funzioni vitali della donna attive, vengono spente. Quello appena descritto, è ciò che viene definito, in letteratura, una gravidanza post mortem. Le gravidanze post mortem sono, dunque, un esempio di riproduzione postuma, poiché la nascita del neonato avviene dopo la morte di uno o di entrambi i suoi genitori biologici. In base alla settimana di gestazione in cui si attua il mantenimento delle funzioni vitali di una donna incinta cerebralmente morta, la gravidanza post mortem può essere considerata futile (al di sotto della tredicesima settimana di gestazione), una terapia sperimentale (tra la tredicesima e ventottesima settimana di gestazione) o una terapia non più sperimentale (quando si è al di là della ventottesima settimana). Le questioni morali insorgono per lo più quando si è tra la tredicesima e la ventottesima settimana di gestazione. Le gravidanze post mortem vanno messe in atto perché il feto gode di un inviolabile diritto alla vita? Tale diritto può essere superato dal diritto alla donna incinta a controllare il proprio corpo? Si dovrebbe cercare di far sopravvivere il feto solo quando lo desidera la donna? Se i desideri della donna sono contrari ai desideri del padre del feto, si sta violando la libertà riproduttiva di quest’ultimo? Se la donna non ha lasciato disposizioni, possiamo dare per scontate le sue volontà o possiamo rimandare la decisione ai suoi parenti stretti? Se tra quest’ultimi vi è disaccordo, a chi dovremmo riconoscere un potere decisionale maggiore? Si deve tenere in conto dei costi? Nel cercare una risposta a questi quesiti morali si discuteranno le tesi di Caterina Botti, presentate in due sue opere, Madri Cattive (2007) e Prospettiva femministe (2014). L’autrice non critica tanto la tecnica in sé delle gravidanze post mortem, quanto le ragioni addotte per metterle in atto. L’autrice farà riferimento a una concezione morale sentimentale e riflessiva, che poggia su una concezione incarnata, sessuata e relazionale del soggetto. Sulla base di tale concezione morale, sosterrà che, dando per scontate la volontà della donna schiacciando quest’ultima sul suo ruolo di madre o rimandando la decisione sui desideri di chi rimane, si vada a ledere la libertà riproduttiva e il diritto a decidere del proprio corpo della donna incinta cerebralmente morta. L’elaborato si pone l’obiettivo di mostrare come mantenere attive le funzioni vitali di una donna incinta cerebralmente morta, tra la tredicesima e la ventottesima settimana, per permettere la sopravvivenza del feto, sia moralmente lecito, ma non moralmente obbligatorio. Si sosterrà, inoltre, l’importanza del consenso del parente prossimo, il quale va identificato, quando presente, nel padre biologico del feto. Si sosterrà che far ricadere la decisione su quest’ultimo non vada a ledere la libertà riproduttiva e il diritto di decidere del proprio corpo della donna.
Le questioni morali che insorgono nelle gravidanze post mortem
GANZ, CRISTINA
2020/2021
Abstract
Quando una donna, in stato di morte cerebrale, risulta essere incinta, la prassi consiste nel mantenere le sue funzioni vitali attive tramite l’utilizzo di macchine vicarianti, in modo tale che il feto in grembo raggiunga uno stadio di sviluppo tale da poter sopravvivere anche al di fuori del corpo materno. Quando questo stadio di sviluppo viene raggiunto, si procede con un cesareo post mortem. Solo allora le macchine vicarianti che hanno mantenuto, fino a quel momento, le funzioni vitali della donna attive, vengono spente. Quello appena descritto, è ciò che viene definito, in letteratura, una gravidanza post mortem. Le gravidanze post mortem sono, dunque, un esempio di riproduzione postuma, poiché la nascita del neonato avviene dopo la morte di uno o di entrambi i suoi genitori biologici. In base alla settimana di gestazione in cui si attua il mantenimento delle funzioni vitali di una donna incinta cerebralmente morta, la gravidanza post mortem può essere considerata futile (al di sotto della tredicesima settimana di gestazione), una terapia sperimentale (tra la tredicesima e ventottesima settimana di gestazione) o una terapia non più sperimentale (quando si è al di là della ventottesima settimana). Le questioni morali insorgono per lo più quando si è tra la tredicesima e la ventottesima settimana di gestazione. Le gravidanze post mortem vanno messe in atto perché il feto gode di un inviolabile diritto alla vita? Tale diritto può essere superato dal diritto alla donna incinta a controllare il proprio corpo? Si dovrebbe cercare di far sopravvivere il feto solo quando lo desidera la donna? Se i desideri della donna sono contrari ai desideri del padre del feto, si sta violando la libertà riproduttiva di quest’ultimo? Se la donna non ha lasciato disposizioni, possiamo dare per scontate le sue volontà o possiamo rimandare la decisione ai suoi parenti stretti? Se tra quest’ultimi vi è disaccordo, a chi dovremmo riconoscere un potere decisionale maggiore? Si deve tenere in conto dei costi? Nel cercare una risposta a questi quesiti morali si discuteranno le tesi di Caterina Botti, presentate in due sue opere, Madri Cattive (2007) e Prospettiva femministe (2014). L’autrice non critica tanto la tecnica in sé delle gravidanze post mortem, quanto le ragioni addotte per metterle in atto. L’autrice farà riferimento a una concezione morale sentimentale e riflessiva, che poggia su una concezione incarnata, sessuata e relazionale del soggetto. Sulla base di tale concezione morale, sosterrà che, dando per scontate la volontà della donna schiacciando quest’ultima sul suo ruolo di madre o rimandando la decisione sui desideri di chi rimane, si vada a ledere la libertà riproduttiva e il diritto a decidere del proprio corpo della donna incinta cerebralmente morta. L’elaborato si pone l’obiettivo di mostrare come mantenere attive le funzioni vitali di una donna incinta cerebralmente morta, tra la tredicesima e la ventottesima settimana, per permettere la sopravvivenza del feto, sia moralmente lecito, ma non moralmente obbligatorio. Si sosterrà, inoltre, l’importanza del consenso del parente prossimo, il quale va identificato, quando presente, nel padre biologico del feto. Si sosterrà che far ricadere la decisione su quest’ultimo non vada a ledere la libertà riproduttiva e il diritto di decidere del proprio corpo della donna. File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14240/34168