The main objective of the proposed work is to analyze in detail the phenomenon of violence and aggression within prisons; in particular, the violence taken into consideration for the purposes of this paper is that conducted by the agents of the Penitentiary Police Corps against prisoners. When this phenomenon comes to light, the agents who are the protagonists of the repression of the riots, authors of violent behaviors considered disproportionate to the extent of the problem, are called 'bad apples' and the events themselves are considered sporadic, not routine, the result of particular events. Considering the violence conducted by the agents in this way means not considering it adequately, circumventing the problem and avoiding knowing the underlying causes of what we can define as a social problem. The evolution of prisons has meant that today they are spokesmen for rights and protection for prisoners, no longer considered as individuals to be punished; if at a regulatory level, this is true, we wonder whether this is also the case from a substantial point of view. What we want to highlight instead is that, beyond these exceptional events, there is, in fact, a common thread of violence in the daily life of Penitentiary Police officers. This idea does not arise from an accusatory or inquisitorial need, but from the interest in understanding what dynamics are capable of triggering such mechanisms and whether these can be traced back to the individual or the environment. The thesis we want to support is that there is a culture that does not allow weaknesses: it is the culture of institutions that often does not mention connecting brutal actions with the institutional environment in which they are committed but connects them to purely personal situations of the agent, making no mention of the working conditions and stress of the agents. It is instead appropriate to ask whether the life led by the agents, made up of deprivation of freedom, is not in some way the cause (or one of the causes) of the agents' malaise. There has been much talk in this contribution of violent actions even towards oneself; This is a very important element because it highlights the discomfort experienced by the officers of the Corps and allows us to reflect on the fact that the violent actions carried out against the inmates are not acts of cruelty, but the result of an uncontrollable discomfort. A factor that should not be underestimated is the fear that can naturally arise when working in places like prison, especially if associated with the issue of overcrowding of inmates, where the officers perceive even more the situation of disadvantage and the possibility, in cases of revolt, of not being able to manage the situation. Starting from the idea of penitentiary institutions as closed social environments, made up of forced relationships, unsustainable work rhythms and the constant possibility of being ‘attacked’, the analysis moves on the assumption that prison is a place that lays its foundations precisely on violence and aggressive agent/inmate relationships. It must be kept in mind that prison is also experienced by men and women who have courageously chosen to do a dangerous job, made up of stressful work shifts, deprivation, anger and frustration, in a peripheral and marginal environment, closed to external society.
Il lavoro proposto ha come principale obiettivo quello di analizzare minuziosamente il fenomeno della violenza e dell’aggressività all’interno degli istituti carcerari; in particolar modo, la violenza presa in considerazione ai fini del presente elaborato è quella condotta dagli agenti del Corpo di Polizia Penitenziaria nei confronti dei detenuti. Quando questo fenomeno viene alla luce, gli agenti protagonisti delle repressioni delle rivolte, autori di comportamenti violenti considerati spropositati all’entità del problema, vengono denominati ‘mele marce’ e gli stessi eventi vengono considerati sporadici, non di routine, frutto di eventi particolari. Considerare in tal modo la violenza condotta dagli agenti significa non considerarla in maniera adeguata, aggirare il problema ed evitare di conoscere le cause sottostanti a quella che possiamo definire una problematica sociale. L’evoluzione degli istituti carcerari ha fatto sì che siano oggi portavoce di diritti e tutela per i detenuti, non più considerati come individui da punire; se a livello normativo, questo è vero, ci interroghiamo se anche da un punto di vista sostanziale sia così. Ciò che invece si vuole evidenziare è che, al di là di questi eventi eccezionali ci sia, in effetti, un filo conduttore di violenza nella quotidianità carceraria degli agenti di Polizia Penitenziaria. Questa idea non nasce da un’esigenza accusatoria o inquisitoria, bensì dall’interesse di comprendere quali sono le dinamiche in grado di innescare tali meccanismi e se questi possono essere riconducibili all’individuo o all’ambiente. La tesi che si vuole sostenere è che ci sia una cultura che non permette debolezze: è la cultura delle istituzioni che spesso non accenna a collegare le azioni brutali con l’ambiente istituzionale in cui esse si consumano ma le collegano a situazioni prettamente personali dell’agente, non facendo alcun accenno alla condizione lavorativa e allo stress degli agenti. È invece opportuno chiedersi se la vita condotta dagli agenti, fatta di privazione di libertà, non sia in qualche modo la causa (o una delle cause) del mal di vivere degli agenti. Si è molto parlato all’interno del presente contributo di azioni violente anche nei confronti di se stessi; questo è un elemento molto importante poiché evidenzia il malessere vissuto dagli agenti del Corpo e consente di riflettere sul fatto che le azioni violente condotte nei confronti dei detenuti non siano degli atti di crudeltà, ma frutto di un malessere incontrollabile. Un fattore da non sottovalutare è la paura che può naturalmente insorgere lavorando in posti come il carcere, soprattutto se associato alla questione del sovraffollamento dei detenuti, in cui gli agenti percepiscono ancor di più la situazione di svantaggio e la possibilità, nei casi di rivolta, di non riuscire a gestire la situazione. Partendo dall’idea degli istituti penitenziari come di ambienti sociali chiusi, costituiti da relazioni forzate, da ritmi insostenibili di lavoro e dalla costante possibilità di essere ‘attaccati’, l’analisi muove sul presupposto che il carcere sia un luogo che pone le sue fondamenta proprio sulla violenza e sulle relazioni agente/detenuto aggressive. Bisogna tenere presente che il carcere è vissuto anche da uomini e donne che hanno scelto con coraggio di fare un lavoro pericoloso, fatto di turni di lavoro stressanti, di privazioni, di rabbia e frustrazione, in un ambiente periferico e marginale, chiuso alla società esterna.
La cultura degli agenti penitenziari: un’analisi dei contesti psico-sociali e clinici
CASAZZA, REBECCA
2023/2024
Abstract
Il lavoro proposto ha come principale obiettivo quello di analizzare minuziosamente il fenomeno della violenza e dell’aggressività all’interno degli istituti carcerari; in particolar modo, la violenza presa in considerazione ai fini del presente elaborato è quella condotta dagli agenti del Corpo di Polizia Penitenziaria nei confronti dei detenuti. Quando questo fenomeno viene alla luce, gli agenti protagonisti delle repressioni delle rivolte, autori di comportamenti violenti considerati spropositati all’entità del problema, vengono denominati ‘mele marce’ e gli stessi eventi vengono considerati sporadici, non di routine, frutto di eventi particolari. Considerare in tal modo la violenza condotta dagli agenti significa non considerarla in maniera adeguata, aggirare il problema ed evitare di conoscere le cause sottostanti a quella che possiamo definire una problematica sociale. L’evoluzione degli istituti carcerari ha fatto sì che siano oggi portavoce di diritti e tutela per i detenuti, non più considerati come individui da punire; se a livello normativo, questo è vero, ci interroghiamo se anche da un punto di vista sostanziale sia così. Ciò che invece si vuole evidenziare è che, al di là di questi eventi eccezionali ci sia, in effetti, un filo conduttore di violenza nella quotidianità carceraria degli agenti di Polizia Penitenziaria. Questa idea non nasce da un’esigenza accusatoria o inquisitoria, bensì dall’interesse di comprendere quali sono le dinamiche in grado di innescare tali meccanismi e se questi possono essere riconducibili all’individuo o all’ambiente. La tesi che si vuole sostenere è che ci sia una cultura che non permette debolezze: è la cultura delle istituzioni che spesso non accenna a collegare le azioni brutali con l’ambiente istituzionale in cui esse si consumano ma le collegano a situazioni prettamente personali dell’agente, non facendo alcun accenno alla condizione lavorativa e allo stress degli agenti. È invece opportuno chiedersi se la vita condotta dagli agenti, fatta di privazione di libertà, non sia in qualche modo la causa (o una delle cause) del mal di vivere degli agenti. Si è molto parlato all’interno del presente contributo di azioni violente anche nei confronti di se stessi; questo è un elemento molto importante poiché evidenzia il malessere vissuto dagli agenti del Corpo e consente di riflettere sul fatto che le azioni violente condotte nei confronti dei detenuti non siano degli atti di crudeltà, ma frutto di un malessere incontrollabile. Un fattore da non sottovalutare è la paura che può naturalmente insorgere lavorando in posti come il carcere, soprattutto se associato alla questione del sovraffollamento dei detenuti, in cui gli agenti percepiscono ancor di più la situazione di svantaggio e la possibilità, nei casi di rivolta, di non riuscire a gestire la situazione. Partendo dall’idea degli istituti penitenziari come di ambienti sociali chiusi, costituiti da relazioni forzate, da ritmi insostenibili di lavoro e dalla costante possibilità di essere ‘attaccati’, l’analisi muove sul presupposto che il carcere sia un luogo che pone le sue fondamenta proprio sulla violenza e sulle relazioni agente/detenuto aggressive. Bisogna tenere presente che il carcere è vissuto anche da uomini e donne che hanno scelto con coraggio di fare un lavoro pericoloso, fatto di turni di lavoro stressanti, di privazioni, di rabbia e frustrazione, in un ambiente periferico e marginale, chiuso alla società esterna.File | Dimensione | Formato | |
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