Il tentativo che qui si compie è l’interazione fra temi appartenenti alla maturità filosofica di autori accomunati dalla lingua madre e tuttavia ben distinti nei rispettivi interessi individuali. Il fine è il possibile reperimento di un punto di confluenza. Il primo tema è la peculiare inflessione che l’“animale”, come problema filosofico, assume in Derrida. Il secondo, quello che, in prima approssimazione, definiremo il nodo della soggettivazione in Foucault, declinato come “cura di sé”. Punto di confluenza, un ospite scomodo della tradizione filosofica: l’esperienza del cinismo antico. Assunto in una dimensione trans-storica, questo assume rilevanza all’intersezione di due linee: in relazione all’animalità, come problematizzazione della stessa differenza che la costituirebbe; quanto a soggettivazione, nei termini di una iperbolica auto-poiesi. Ad agire, in entrambi i casi, una dinamica “differenziale”. Fra l’uomo e il suo generico contrappunto dialettico che va sotto la voce univoca “animale”, e il filosofo dalla eccentrica postura canina, antagonista di una soggettivazione demandata all’eteronomia sociale istituzionalizzata. I testi di riferimento sembrano procedere paralleli, senza convergenze immediate. Ma la decostruzione derridiana revoca in dubbio, insieme ai presupposti classici della distinzione fra uomo e animale che fonderebbero l’“animalità” di quest’ultimo, anche ogni certezza circa l’“umanità” dell’uomo. Qui, la domanda “io chi sono?” non è condotta dal cogito. La assume un problematico sguardo felino nel quale si riflette una immagine dell’uomo nudo in tutti i sensi e tutt’altro che identitaria. Allo stesso modo, l’incursione foucaultiana nella filosofia antica non persegue una chiarificazione fine a se stessa del cinismo. Come se, dopotutto, non si trattasse che di una estrema declinazione della medesima cura di sé condotta, per esempio, ma senza intemperanze pubbliche, da Stoici ed Epicurei. La posta in gioco del corso è più alta. Quali antiche dinamiche nella “cura di sé” si sono perdute lungo i secoli, come si sono trasformate, che forma di “reagente” potrebbero costituire nell’era del tardo capitalismo globale – sembra chiedersi Foucault? E quali esiti auto-formativi potevano (possono ancora) dischiudere? La risposta, mai pronunciata, percorre ogni pagina del corso. Fino al lungo confronto con il cinismo, sorta di approdo a lungo preparato. Qui, nell’eccedenza del portamento, il tema “verità” diviene gradiente interno del processo di soggettivazione. Performatività del soggetto che non vale certo, tanto più nel caso di Diogene, come esempio da scimmiottare: piuttosto un ideal-tipo, dai forti connotati storico-sociali, che a partire da una ricerca di un sé essenziale (ma non metafisicamente essenzialistico) mette capo a una esperienza di soggettivazione a dir poco alternativa rispetto a tutti gli assoggettamenti individuali della socialità disciplinare. L’intento complessivo dell’analisi si potrebbe leggere come messa in questione dell’antropocentrismo, ma senza frettolose cancellazioni del soggetto. La questione resta infatti quella di chi sia in grado di assumere l’animalità come propria condizione di provenienza da una filogenesi inoppugnabile. Ovvero di che cosa ne sia di un soggetto che pensi radicalmente mai concluso il proprio processo di “ominizzazione”, invece di concepirsi sostanza privilegiata sul piano altrimenti omogeneo delle creature viventi.

Animale, troppo animale. Vie ciniche di soggettivazione.

SARDANAPOLI, EZIO
2020/2021

Abstract

Il tentativo che qui si compie è l’interazione fra temi appartenenti alla maturità filosofica di autori accomunati dalla lingua madre e tuttavia ben distinti nei rispettivi interessi individuali. Il fine è il possibile reperimento di un punto di confluenza. Il primo tema è la peculiare inflessione che l’“animale”, come problema filosofico, assume in Derrida. Il secondo, quello che, in prima approssimazione, definiremo il nodo della soggettivazione in Foucault, declinato come “cura di sé”. Punto di confluenza, un ospite scomodo della tradizione filosofica: l’esperienza del cinismo antico. Assunto in una dimensione trans-storica, questo assume rilevanza all’intersezione di due linee: in relazione all’animalità, come problematizzazione della stessa differenza che la costituirebbe; quanto a soggettivazione, nei termini di una iperbolica auto-poiesi. Ad agire, in entrambi i casi, una dinamica “differenziale”. Fra l’uomo e il suo generico contrappunto dialettico che va sotto la voce univoca “animale”, e il filosofo dalla eccentrica postura canina, antagonista di una soggettivazione demandata all’eteronomia sociale istituzionalizzata. I testi di riferimento sembrano procedere paralleli, senza convergenze immediate. Ma la decostruzione derridiana revoca in dubbio, insieme ai presupposti classici della distinzione fra uomo e animale che fonderebbero l’“animalità” di quest’ultimo, anche ogni certezza circa l’“umanità” dell’uomo. Qui, la domanda “io chi sono?” non è condotta dal cogito. La assume un problematico sguardo felino nel quale si riflette una immagine dell’uomo nudo in tutti i sensi e tutt’altro che identitaria. Allo stesso modo, l’incursione foucaultiana nella filosofia antica non persegue una chiarificazione fine a se stessa del cinismo. Come se, dopotutto, non si trattasse che di una estrema declinazione della medesima cura di sé condotta, per esempio, ma senza intemperanze pubbliche, da Stoici ed Epicurei. La posta in gioco del corso è più alta. Quali antiche dinamiche nella “cura di sé” si sono perdute lungo i secoli, come si sono trasformate, che forma di “reagente” potrebbero costituire nell’era del tardo capitalismo globale – sembra chiedersi Foucault? E quali esiti auto-formativi potevano (possono ancora) dischiudere? La risposta, mai pronunciata, percorre ogni pagina del corso. Fino al lungo confronto con il cinismo, sorta di approdo a lungo preparato. Qui, nell’eccedenza del portamento, il tema “verità” diviene gradiente interno del processo di soggettivazione. Performatività del soggetto che non vale certo, tanto più nel caso di Diogene, come esempio da scimmiottare: piuttosto un ideal-tipo, dai forti connotati storico-sociali, che a partire da una ricerca di un sé essenziale (ma non metafisicamente essenzialistico) mette capo a una esperienza di soggettivazione a dir poco alternativa rispetto a tutti gli assoggettamenti individuali della socialità disciplinare. L’intento complessivo dell’analisi si potrebbe leggere come messa in questione dell’antropocentrismo, ma senza frettolose cancellazioni del soggetto. La questione resta infatti quella di chi sia in grado di assumere l’animalità come propria condizione di provenienza da una filogenesi inoppugnabile. Ovvero di che cosa ne sia di un soggetto che pensi radicalmente mai concluso il proprio processo di “ominizzazione”, invece di concepirsi sostanza privilegiata sul piano altrimenti omogeneo delle creature viventi.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.14240/30104