Questa tesi non ha la pretesa di dare una risposta ad un quesito di grande portata, quanto di invitare il lettore a riflettere sulle responsabilità che la comunità internazionale ha, durante e dopo i conflitti. Si poteva fare di più? Si poteva agire prima? Si poteva fare diversamente? O tutto sommato è andata bene così? Ma bene per chi? Forse presi dalla fretta di fermare l’orrore e la voglia di sventolare finalmente la bandiera arcobaleno con la scritta pace su città che da tempo, per rassegnazione, avevano depennato dal proprio vocabolario questa parola, si è gettato sull’orlo del baratro il futuro di uno Stato, e con esso anche quello dei suoi multietnici cittadini. Il primo capitolo proporrà una breve ricostruzione dei momenti salienti del conflitto per offrire al lettore un quadro storico sul quale basare il proprio pensiero critico. Si passerà per il 1995, l’anno finale e forse più atroce di tutta la guerra, che racchiude al proprio interno il massacro di Srebrenica dove persero la vita più di ottomila Bosgnacchi musulmani, uomini e ragazzi. Le donne, le bambine ed i più anziani subirono invece una deportazione. Numerose furono le violenze sessuali, definite anche: stupri etnici, che sembravano diventate ormai un filo conduttore della prassi dei soldati guidati dal generale Ratko Mladić. Il tutto in una quasi totale assenza di azione da parte dei caschi blu. A decretare l’intervento della NATO con la Deliberate Force, un’intensa campagna di attacchi aerei contro l’esercito serbo, sarà proprio l’attacco perpetrato ad una delle cosiddette safe areas Sarajevo. Proprio qui, dalla Deliberate Force inizierà il tortuoso cammino per Dayton. È con l’Accordo di Dayton, anche chiamato: “General Framework Agreement for Peace” (GFAP) che inizierà il secondo capitolo. In quell’ormai lontano dicembre 1995 prenderà vita la libertà, la fine della guerra, l’obbiettivo principale dei negoziati. Un sogno per i Bosniaci, un sogno che presto si trasformerà, però, in incubo. “Dayton è la causa dei mali odierni della Bosnia” disse Muhamed Sacirbey, all’epoca ambasciatore bosniaco presso le Nazioni Unite, che si dimise subito dopo la firma dell’Accordo, firma che ritirò successivamente nel 2005. In un’intervista del 2010 Sacirbey affermerà: “Non è una coincidenza che si parli di Sarajevo come la Gerusalemme d’Europa”. Affermazioni che fanno presagire il fatto che, per la fretta di porre fine al confitto, l’Accordo abbia posto lo Stato della Bosnia ed Erzegovina di fronte a grossi ostacoli difficili da superare. L’ultimo capitolo tratterà degli effetti che Dayton ha avuto e sta avendo tutt’ora sulla società bosniaca. Uno Stato multietnico, terribilmente frammentato politicamente, paralizzato e imprigionato proprio da ciò che avrebbe dovuto restituirgli la libertà. Bosgnacchi, Serbi, Croati accomunati dal fatto di abitare dentro gli stessi confini. Io li ho visti vivere e convivere insieme in questi lunghi anni, e non ho letto risentimento nei loro occhi, ma voglia di ripartire e riparare agli errori del passato, insieme. Allora è lecito domandarsi, dopo questa rosea premessa di pacifica convivenza, quale sia l’ostacolo insormontabile che si frappone tra la Bosnia e lo sviluppo. La risposta è: il complesso sistema di power-sharing, gestito inadeguatamente, che causa immobilismo e ostacola la via verso un vero futuro.

Bosnia ed Erzegovina post-Dayton tra power-sharing e “multietnicità politica”

HUSIC', NADINA
2019/2020

Abstract

Questa tesi non ha la pretesa di dare una risposta ad un quesito di grande portata, quanto di invitare il lettore a riflettere sulle responsabilità che la comunità internazionale ha, durante e dopo i conflitti. Si poteva fare di più? Si poteva agire prima? Si poteva fare diversamente? O tutto sommato è andata bene così? Ma bene per chi? Forse presi dalla fretta di fermare l’orrore e la voglia di sventolare finalmente la bandiera arcobaleno con la scritta pace su città che da tempo, per rassegnazione, avevano depennato dal proprio vocabolario questa parola, si è gettato sull’orlo del baratro il futuro di uno Stato, e con esso anche quello dei suoi multietnici cittadini. Il primo capitolo proporrà una breve ricostruzione dei momenti salienti del conflitto per offrire al lettore un quadro storico sul quale basare il proprio pensiero critico. Si passerà per il 1995, l’anno finale e forse più atroce di tutta la guerra, che racchiude al proprio interno il massacro di Srebrenica dove persero la vita più di ottomila Bosgnacchi musulmani, uomini e ragazzi. Le donne, le bambine ed i più anziani subirono invece una deportazione. Numerose furono le violenze sessuali, definite anche: stupri etnici, che sembravano diventate ormai un filo conduttore della prassi dei soldati guidati dal generale Ratko Mladić. Il tutto in una quasi totale assenza di azione da parte dei caschi blu. A decretare l’intervento della NATO con la Deliberate Force, un’intensa campagna di attacchi aerei contro l’esercito serbo, sarà proprio l’attacco perpetrato ad una delle cosiddette safe areas Sarajevo. Proprio qui, dalla Deliberate Force inizierà il tortuoso cammino per Dayton. È con l’Accordo di Dayton, anche chiamato: “General Framework Agreement for Peace” (GFAP) che inizierà il secondo capitolo. In quell’ormai lontano dicembre 1995 prenderà vita la libertà, la fine della guerra, l’obbiettivo principale dei negoziati. Un sogno per i Bosniaci, un sogno che presto si trasformerà, però, in incubo. “Dayton è la causa dei mali odierni della Bosnia” disse Muhamed Sacirbey, all’epoca ambasciatore bosniaco presso le Nazioni Unite, che si dimise subito dopo la firma dell’Accordo, firma che ritirò successivamente nel 2005. In un’intervista del 2010 Sacirbey affermerà: “Non è una coincidenza che si parli di Sarajevo come la Gerusalemme d’Europa”. Affermazioni che fanno presagire il fatto che, per la fretta di porre fine al confitto, l’Accordo abbia posto lo Stato della Bosnia ed Erzegovina di fronte a grossi ostacoli difficili da superare. L’ultimo capitolo tratterà degli effetti che Dayton ha avuto e sta avendo tutt’ora sulla società bosniaca. Uno Stato multietnico, terribilmente frammentato politicamente, paralizzato e imprigionato proprio da ciò che avrebbe dovuto restituirgli la libertà. Bosgnacchi, Serbi, Croati accomunati dal fatto di abitare dentro gli stessi confini. Io li ho visti vivere e convivere insieme in questi lunghi anni, e non ho letto risentimento nei loro occhi, ma voglia di ripartire e riparare agli errori del passato, insieme. Allora è lecito domandarsi, dopo questa rosea premessa di pacifica convivenza, quale sia l’ostacolo insormontabile che si frappone tra la Bosnia e lo sviluppo. La risposta è: il complesso sistema di power-sharing, gestito inadeguatamente, che causa immobilismo e ostacola la via verso un vero futuro.
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