Nell'attuale contesto di crisi la proprietà di un marchio, meglio se ¿ultranotorio¿ e ¿globale¿, costituisce, insieme alla capacità imprenditoriale, uno degli elementi chiave di sopravvivenza per un'impresa. Il brand, elemento distintivo di un'impresa e bene intangibile per eccellenza, rappresenta, nel mondo degli IFRS, una delle attività più ¿controverse¿ e difficilmente categorizzabili in schemi contabili pre-definiti, proprio alla luce della sua unicità. L'interesse ad approfondire e sviluppare le tematiche legate al marchio contenute nel mio elaborato è iniziato con la lettura d'alcuni bilanci d'imprese nazionali quotate, dalla quale è emersa una ¿non-omogeneità¿ nel trattamento contabile di tale attività immateriale, pur nell'ambito dello stesso set di principi contabili, gli International Financial Reporting Standards (¿IFRS¿). La ¿non-omogeneità¿ si concretizza nell'attribuzione a tale ¿asset¿ di una vita utile ¿definita¿ da parte di talune imprese, di una vita utile ¿indefinita¿ da parte di talune altre, con la convivenza, in rari casi, di queste due impostazioni contabili addirittura all'interno della stessa società/gruppo con riferimento a marchi diversi. A mio avviso tale ¿non-omogeneità¿ assume addirittura la veste di una ¿contraddizione¿ (purtroppo non l'unica contenuta negli IFRS), se si considerano i risultati prodotti e avendo in mente la principale finalità per la quale gli International Financial Reporting Standards furono introdotti nell'ordinamento europeo: rendere comparabili i bilanci. Nel panorama attuale coesistono imprese che hanno ammortizzato completamente i propri marchi pur continuando a sfruttarli, con altre imprese, nella stessa condizione, che ne hanno però ¿sospeso¿ l'ammortamento sottoponendoli a ¿impairment test¿ con cadenza almeno annuale. Su tale aspetto, la ricerca da me svolta, condotta su alcuni gruppi d'imprese quotati, nazionali e internazionali, ha messo in luce una situazione alquanto differenziata: anche se la vita utile ¿definita¿ rappresenta ancora il benchmark, nel campione da me analizzato non emerge la preponderanza di un trattamento contabile rispetto all'altro; emerge invece un'ulteriore anomalia: nell'ambito della categoria dei marchi a vita utile ¿definita¿ il periodo d'ammortamento ha un'oscillazione temporale assai ampia, passando da un minimo di 3 anni a un massimo di 30 anni, anche per marchi appartenenti a imprese facenti parte dello stesso settore. Vi sono poi imprese che, molti anni dopo la transizione agli IFRS, hanno differenziato il proprio modello valutativo a seconda dei marchi, ciò per effetto di una miglior contestualizzazione della realtà e di una maggior comprensione delle dinamiche d'impairment proprie degli Standards internazionali. Il mio elaborato si applica alle imprese che adottano il modello valutativo del ¿costo¿, previsto dallo IAS 38; meno frequenti, per non dire inesistenti, le imprese quotate che invece adottato il modello valutativo del ¿fair value¿, il quale condurrebbe ad identificare il valore dell'azienda con il valore del proprio marchio, con evidenti effetti discorsivi nei confronti del mercato.

I marchi negli IFRS: esame di casi concreti

BOIDI, MARCO
2011/2012

Abstract

Nell'attuale contesto di crisi la proprietà di un marchio, meglio se ¿ultranotorio¿ e ¿globale¿, costituisce, insieme alla capacità imprenditoriale, uno degli elementi chiave di sopravvivenza per un'impresa. Il brand, elemento distintivo di un'impresa e bene intangibile per eccellenza, rappresenta, nel mondo degli IFRS, una delle attività più ¿controverse¿ e difficilmente categorizzabili in schemi contabili pre-definiti, proprio alla luce della sua unicità. L'interesse ad approfondire e sviluppare le tematiche legate al marchio contenute nel mio elaborato è iniziato con la lettura d'alcuni bilanci d'imprese nazionali quotate, dalla quale è emersa una ¿non-omogeneità¿ nel trattamento contabile di tale attività immateriale, pur nell'ambito dello stesso set di principi contabili, gli International Financial Reporting Standards (¿IFRS¿). La ¿non-omogeneità¿ si concretizza nell'attribuzione a tale ¿asset¿ di una vita utile ¿definita¿ da parte di talune imprese, di una vita utile ¿indefinita¿ da parte di talune altre, con la convivenza, in rari casi, di queste due impostazioni contabili addirittura all'interno della stessa società/gruppo con riferimento a marchi diversi. A mio avviso tale ¿non-omogeneità¿ assume addirittura la veste di una ¿contraddizione¿ (purtroppo non l'unica contenuta negli IFRS), se si considerano i risultati prodotti e avendo in mente la principale finalità per la quale gli International Financial Reporting Standards furono introdotti nell'ordinamento europeo: rendere comparabili i bilanci. Nel panorama attuale coesistono imprese che hanno ammortizzato completamente i propri marchi pur continuando a sfruttarli, con altre imprese, nella stessa condizione, che ne hanno però ¿sospeso¿ l'ammortamento sottoponendoli a ¿impairment test¿ con cadenza almeno annuale. Su tale aspetto, la ricerca da me svolta, condotta su alcuni gruppi d'imprese quotati, nazionali e internazionali, ha messo in luce una situazione alquanto differenziata: anche se la vita utile ¿definita¿ rappresenta ancora il benchmark, nel campione da me analizzato non emerge la preponderanza di un trattamento contabile rispetto all'altro; emerge invece un'ulteriore anomalia: nell'ambito della categoria dei marchi a vita utile ¿definita¿ il periodo d'ammortamento ha un'oscillazione temporale assai ampia, passando da un minimo di 3 anni a un massimo di 30 anni, anche per marchi appartenenti a imprese facenti parte dello stesso settore. Vi sono poi imprese che, molti anni dopo la transizione agli IFRS, hanno differenziato il proprio modello valutativo a seconda dei marchi, ciò per effetto di una miglior contestualizzazione della realtà e di una maggior comprensione delle dinamiche d'impairment proprie degli Standards internazionali. Il mio elaborato si applica alle imprese che adottano il modello valutativo del ¿costo¿, previsto dallo IAS 38; meno frequenti, per non dire inesistenti, le imprese quotate che invece adottato il modello valutativo del ¿fair value¿, il quale condurrebbe ad identificare il valore dell'azienda con il valore del proprio marchio, con evidenti effetti discorsivi nei confronti del mercato.
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