This thesis examines the dynamics of the expansion of Israeli settlements in the West Bank, with a particular focus on the crucial role of settler violence and the complicity of the State of Tel Aviv in this process. Israel has built over 200 settlements in the region, which today house more than 700,000 settlers. These settlements, which exhibit various forms of illegitimacy under international law, occupy hundreds of square kilometers of land, to which Palestinians have extremely limited or no access. The appropriation of these areas occurs through two main mechanisms: the first involves the use of official state instruments, such as military orders, declarations of "state land," designations of "firing zones" or "nature reserves," and legally sanctioned expropriation; the second consists of daily acts of violence by settlers, aimed at intimidating and displacing Palestinian communities. The expansion of outposts, many of which are built without formal authorization or regulatory plans, receives extensive support from Israeli authorities. This support is evident not only through the military defense of the outposts but also through the construction of essential infrastructure such as roads, water and electricity connections, as well as funding for agricultural activities and legal assistance in case of disputes. Despite statements by the Israeli government regarding its intention to distinguish between outposts built on privately owned Palestinian land and those on "state land," almost all outposts remain in place, often with the tacit approval of the Israeli Supreme Court. At the same time, settler violence against Palestinians, documented since the early days of the occupation, has become a constant feature of daily life in the West Bank. This violence includes physical assaults, arson of fields, destruction of crops and property, theft of harvests, and threats, escalating in extreme cases to murder. The role of the state in this context is one of profound complicity: the military not only refrains from intervening against violent settlers but often removes Palestinians from their own land rather than confronting settlers. Instead of protecting Palestinian victims, security forces employ tactics such as the imposition of closed military zones or the use of live ammunition and tear gas against Palestinians. Moreover, Israeli authorities rarely prosecute settlers responsible for violence, and the few trials that do take place generally result in convictions for minor offenses with symbolic sentences. The combination of state violence and “informal” violence by settlers constitutes an integral part of Israel’s apartheid regime, aimed at creating an exclusively Jewish space between the Jordan River and the Mediterranean Sea. This regime treats land as a resource to be allocated almost exclusively to Jewish communities, while simultaneously fragmenting Palestinian space and confining Palestinians to small, overcrowded enclaves. This thesis, therefore, seeks to demonstrate that settler violence is not an isolated phenomenon but rather an essential and organized component of the state's territorial expansion and colonial policy in the West Bank, with severe consequences for Palestinian communities and the future of the entire region.

La presente tesi esamina le dinamiche di espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, con un’attenzione particolare al ruolo cruciale della violenza perpetrata dai coloni e alla complicità dello Stato di Tel Aviv in questo processo. Israele ha costruito oltre 200 insediamenti nella regione, che oggigiorno ospitano più di 700.000 coloni. Questi insediamenti, che presentano diversi profili di illegittimità in base al diritto internazionale, occupano centinaia di chilometri quadrati di terre, a cui i palestinesi hanno un accesso estremamente limitato, se non nullo. L’appropriazione di queste aree avviene tramite due principali modalità: la prima è attraverso l’uso di strumenti ufficiali da parte dello Stato, come ordini militari, dichiarazioni di “terra statale”, designazioni di “zone di tiro” o “riserve naturali”, e l'espropriazione giuridicamente sancita; la seconda è attraverso atti quotidiani di violenza da parte dei coloni, volti ad intimidire e allontanare le comunità palestinesi. L’espansione degli avamposti, molti dei quali costruiti senza autorizzazione formale o piani regolatori, riceve ampio sostegno dalle autorità israeliane. Questo sostegno si manifesta non solo attraverso la difesa militare degli avamposti, ma anche tramite la costruzione di infrastrutture essenziali come strade, allacci idrici ed elettrici, oltre a finanziamenti per attività agricole e assistenza legale in caso di contestazioni. Nonostante le dichiarazioni dello Stato di Israele circa l'intenzione di distinguere tra avamposti su terre private palestinesi e quelli su “terre statali”, quasi tutti gli avamposti rimangono in essere, spesso con il beneplacito della Corte Suprema israeliana. Parallelamente, la violenza dei coloni contro i palestinesi, documentata sin dai primi giorni dell’occupazione, è diventata una costante della vita quotidiana in Cisgiordania. Questa violenza include aggressioni fisiche, incendi di campi, distruzione di colture e proprietà, furti di raccolti e minacce, fino ad arrivare, in casi estremi, all’omicidio. Il ruolo dello Stato in questo contesto è di profonda complicità: i militari non solo evitano di intervenire contro i coloni violenti, ma spesso rimuovono i palestinesi dalle loro stesse terre piuttosto che confrontarsi con i coloni. Le forze di sicurezza, invece di proteggere le vittime palestinesi, utilizzano tattiche come l’imposizione di zone militari chiuse o l'uso di munizioni e gas lacrimogeni contro i palestinesi. Inoltre, le autorità israeliane tendono a non perseguire penalmente i coloni responsabili di violenze e i rari processi si concludono generalmente con condanne per reati minori e pene simboliche. La combinazione di violenza statale e violenza “informale” da parte dei coloni costituisce una parte integrante del regime di apartheid israeliano, volto a creare uno spazio esclusivamente ebraico tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questo regime utilizza la terra come risorsa da destinare quasi esclusivamente allo sviluppo di comunità ebraiche, frammentando al contempo lo spazio palestinese e relegando i palestinesi a vivere in piccole enclave sovrappopolate. Questa tesi si propone, dunque, di dimostrare come la violenza dei coloni non sia un fenomeno isolato, ma una componente essenziale e organizzata della politica statale di espansione territoriale e coloniale in Cisgiordania, con gravi ripercussioni sulle comunità palestinesi e sul futuro dell'intera regione.

La geografia politica e urbana della colonizzazione israeliana in Cisgiordania

BONGIOANNI, MAURIZIO
2023/2024

Abstract

La presente tesi esamina le dinamiche di espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, con un’attenzione particolare al ruolo cruciale della violenza perpetrata dai coloni e alla complicità dello Stato di Tel Aviv in questo processo. Israele ha costruito oltre 200 insediamenti nella regione, che oggigiorno ospitano più di 700.000 coloni. Questi insediamenti, che presentano diversi profili di illegittimità in base al diritto internazionale, occupano centinaia di chilometri quadrati di terre, a cui i palestinesi hanno un accesso estremamente limitato, se non nullo. L’appropriazione di queste aree avviene tramite due principali modalità: la prima è attraverso l’uso di strumenti ufficiali da parte dello Stato, come ordini militari, dichiarazioni di “terra statale”, designazioni di “zone di tiro” o “riserve naturali”, e l'espropriazione giuridicamente sancita; la seconda è attraverso atti quotidiani di violenza da parte dei coloni, volti ad intimidire e allontanare le comunità palestinesi. L’espansione degli avamposti, molti dei quali costruiti senza autorizzazione formale o piani regolatori, riceve ampio sostegno dalle autorità israeliane. Questo sostegno si manifesta non solo attraverso la difesa militare degli avamposti, ma anche tramite la costruzione di infrastrutture essenziali come strade, allacci idrici ed elettrici, oltre a finanziamenti per attività agricole e assistenza legale in caso di contestazioni. Nonostante le dichiarazioni dello Stato di Israele circa l'intenzione di distinguere tra avamposti su terre private palestinesi e quelli su “terre statali”, quasi tutti gli avamposti rimangono in essere, spesso con il beneplacito della Corte Suprema israeliana. Parallelamente, la violenza dei coloni contro i palestinesi, documentata sin dai primi giorni dell’occupazione, è diventata una costante della vita quotidiana in Cisgiordania. Questa violenza include aggressioni fisiche, incendi di campi, distruzione di colture e proprietà, furti di raccolti e minacce, fino ad arrivare, in casi estremi, all’omicidio. Il ruolo dello Stato in questo contesto è di profonda complicità: i militari non solo evitano di intervenire contro i coloni violenti, ma spesso rimuovono i palestinesi dalle loro stesse terre piuttosto che confrontarsi con i coloni. Le forze di sicurezza, invece di proteggere le vittime palestinesi, utilizzano tattiche come l’imposizione di zone militari chiuse o l'uso di munizioni e gas lacrimogeni contro i palestinesi. Inoltre, le autorità israeliane tendono a non perseguire penalmente i coloni responsabili di violenze e i rari processi si concludono generalmente con condanne per reati minori e pene simboliche. La combinazione di violenza statale e violenza “informale” da parte dei coloni costituisce una parte integrante del regime di apartheid israeliano, volto a creare uno spazio esclusivamente ebraico tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questo regime utilizza la terra come risorsa da destinare quasi esclusivamente allo sviluppo di comunità ebraiche, frammentando al contempo lo spazio palestinese e relegando i palestinesi a vivere in piccole enclave sovrappopolate. Questa tesi si propone, dunque, di dimostrare come la violenza dei coloni non sia un fenomeno isolato, ma una componente essenziale e organizzata della politica statale di espansione territoriale e coloniale in Cisgiordania, con gravi ripercussioni sulle comunità palestinesi e sul futuro dell'intera regione.
The urban and political geography of the Israeli colonisation of the West Bank
This thesis examines the dynamics of the expansion of Israeli settlements in the West Bank, with a particular focus on the crucial role of settler violence and the complicity of the State of Tel Aviv in this process. Israel has built over 200 settlements in the region, which today house more than 700,000 settlers. These settlements, which exhibit various forms of illegitimacy under international law, occupy hundreds of square kilometers of land, to which Palestinians have extremely limited or no access. The appropriation of these areas occurs through two main mechanisms: the first involves the use of official state instruments, such as military orders, declarations of "state land," designations of "firing zones" or "nature reserves," and legally sanctioned expropriation; the second consists of daily acts of violence by settlers, aimed at intimidating and displacing Palestinian communities. The expansion of outposts, many of which are built without formal authorization or regulatory plans, receives extensive support from Israeli authorities. This support is evident not only through the military defense of the outposts but also through the construction of essential infrastructure such as roads, water and electricity connections, as well as funding for agricultural activities and legal assistance in case of disputes. Despite statements by the Israeli government regarding its intention to distinguish between outposts built on privately owned Palestinian land and those on "state land," almost all outposts remain in place, often with the tacit approval of the Israeli Supreme Court. At the same time, settler violence against Palestinians, documented since the early days of the occupation, has become a constant feature of daily life in the West Bank. This violence includes physical assaults, arson of fields, destruction of crops and property, theft of harvests, and threats, escalating in extreme cases to murder. The role of the state in this context is one of profound complicity: the military not only refrains from intervening against violent settlers but often removes Palestinians from their own land rather than confronting settlers. Instead of protecting Palestinian victims, security forces employ tactics such as the imposition of closed military zones or the use of live ammunition and tear gas against Palestinians. Moreover, Israeli authorities rarely prosecute settlers responsible for violence, and the few trials that do take place generally result in convictions for minor offenses with symbolic sentences. The combination of state violence and “informal” violence by settlers constitutes an integral part of Israel’s apartheid regime, aimed at creating an exclusively Jewish space between the Jordan River and the Mediterranean Sea. This regime treats land as a resource to be allocated almost exclusively to Jewish communities, while simultaneously fragmenting Palestinian space and confining Palestinians to small, overcrowded enclaves. This thesis, therefore, seeks to demonstrate that settler violence is not an isolated phenomenon but rather an essential and organized component of the state's territorial expansion and colonial policy in the West Bank, with severe consequences for Palestinian communities and the future of the entire region.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.14240/165927