Fashion industry is always more committed to environmental and social issues. This trend also involves millions of fashion consumers and it is quite recent, though the existence of these problems had long been known. The Nike Factory Scandal in the late '90s concerning the employment of children in Pakistan, the Rana Plaza disaster in 2013 and so on, are just a few examples of a tragic situation we have never wanted to see for decades, although the access to information was easy like never before thanks to the internet. Fashion industry in the meantime has become the second largest consumer of water and, according to the World Bank, the cause of 20% of global water pollution. A situation that has been reported and postponed for years ...And yet it is only now that we are beginning to take action on it, integrating an ethical perspective in the fashion business. Is it a genuine revolution or greenwashing? Why now? This paradigm shift depends on several factors like the awareness of climate change, the increasing impact of secondhand market, the over-saturation of fast fashion industry (not to mention our wardrobes) and the end of Western supremacy for fashion sales in 2017. In 2018, for the first time, the emerging market countries across Asia-Pacific, Latin America and other regions have passed Europe and North America garnering a significant share of the fashion market. In this new scenario, it could be no more convenient to consider a garment like a commodity, but rather call it durable good, focusing on the primacy of quality over quantity. In addition, this new fashion sensitivity is strongly reminiscent of the cultural phenomenon that affected the food sector in the late '80s, which led, for example, to the birth of Slow Food and ethical purchasing groups (GASes). The goal of this document is to analyze, through some specific case studies (The Fashion Revolution, Who Made My Clothes, Usato Firmato, Mercatino Srl...), the responsible and transparent fashion trends, focusing on cultural evolutions, the impact of digital transformation and the second hand market.
Siamo di fronte a un'industria della moda sempre più attenta ai temi della sostenibilità ambientale ed ai diritti dei lavoratori della filiera. Un trend recente, non solo auspicabile ma necessario e che caratterizza anche i consumatori di questo settore. Questa nuova sensibilità, per alcuni aspetti (di cui si dirà più avanti in questo lavoro) rimanda al fenomeno culturale che ha investito il settore food alla fine degli anni 80 portando, ad esempio, alla nascita di movimenti come Slow Food e ai Gruppi di Acquisto Solidale. Eppure, è dalla fine degli anni 90 che la questione etico-ambientale nella moda è stata, almeno mediaticamente, sollevata. In termini di visibilità, gli scandali più eclatanti furono quelli del 1996, il caso dei bambini pachistani che cucivano palloni per grandi brand dello sport e i 1135 morti nel crollo del Rana Plaza del 24 aprile 2013… Sono solo due dei numerosi episodi drammatici, vicini e lontani, che abbiamo collezionato in quest'ultimo trentennio. Sarebbe stato opportuno, già all'epoca, non solo indignarsi, ma intervenire concretamente, aprendo un dibattito costruttivo e tentando di risolvere questa annosa questione, a maggior ragione perché l'accesso all'informazione per molti, moltissimi di questi casi, anche se non sempre sui canali mainstream era, ed è, estremamente facilitato grazie a internet. Nel frattempo, invece, l'industria del Fast Fashion ha avuto tutto lo spazio per svilupparsi e imporsi indisturbata, peggiorando ulteriormente le condizioni di vita dei lavoratori della filiera e contribuendo, sostanzialmente, a fare della Moda la seconda industria più inquinante al mondo dopo quella del petrolio. Una situazione denunciata e rimandata da anni... perché proprio adesso va di moda ridiscutere la moda e in una prospettiva etica? Sorge spontaneo chiedersi se si tratti di azioni con un impatto reale o di greenwashing e quali siano i fattori scatenanti di questo positivo e urgente cambio di paradigma culturale, promosso soprattutto da brand di lusso e da consumatori medio e alto spendenti. Chi vende al massimo prezzo si allea con il mercato secondario e chi può spendere di più decide di comprare meno. Sembrano paradossi, ma solo per chi tralascia (o non ammette) che, di fronte ad armadi e bacheche decisamente sovraffollati (con conseguente riduzione dell'utilità marginale ), Ethics is the new ADV, ossia lo strumento attualmente più potente per (ri)affermarsi socialmente e, soprattutto, sul mercato. Nell'epoca dell'autenticità in versione social, l'imperativo è meno popolarità e più reputazione. Di fronte alla saturazione del mercato fast fashion e alla perdita da parte dell'Occidente del ruolo di mercato principale per la prima volta nella storia, forse non conviene più pensare a un abito come a un bene di consumo, quanto piuttosto elevarlo a bene durevole e/o relazionale. L'obiettivo di questo documento è analizzare, attraverso alcuni casi puntuali, il trend della moda responsabile e trasparente. Si rifletterà: sull'impatto della trasformazione digitale in ambito retail; sull'evoluzione del settore nell'ambito della trasparenza delle filiere e della tracciabilità avanzata. Si analizzerano, inoltre, il movimento WHO MADE MY CLOTHES promosso da FASHION REVOLUTION e le case history di USATO FIRMATO e MERCATINO SRL. In questo lavoro cercheremo quindi di comprendere cosa sta cosa sta succedendo e perché, nel tentativo di delineare, seppur parzialmente, i nessi causali e i circoli virtuosi in atto.
Green CommuniCashion in Fashion
ZARIK, TATIANA
2019/2020
Abstract
Siamo di fronte a un'industria della moda sempre più attenta ai temi della sostenibilità ambientale ed ai diritti dei lavoratori della filiera. Un trend recente, non solo auspicabile ma necessario e che caratterizza anche i consumatori di questo settore. Questa nuova sensibilità, per alcuni aspetti (di cui si dirà più avanti in questo lavoro) rimanda al fenomeno culturale che ha investito il settore food alla fine degli anni 80 portando, ad esempio, alla nascita di movimenti come Slow Food e ai Gruppi di Acquisto Solidale. Eppure, è dalla fine degli anni 90 che la questione etico-ambientale nella moda è stata, almeno mediaticamente, sollevata. In termini di visibilità, gli scandali più eclatanti furono quelli del 1996, il caso dei bambini pachistani che cucivano palloni per grandi brand dello sport e i 1135 morti nel crollo del Rana Plaza del 24 aprile 2013… Sono solo due dei numerosi episodi drammatici, vicini e lontani, che abbiamo collezionato in quest'ultimo trentennio. Sarebbe stato opportuno, già all'epoca, non solo indignarsi, ma intervenire concretamente, aprendo un dibattito costruttivo e tentando di risolvere questa annosa questione, a maggior ragione perché l'accesso all'informazione per molti, moltissimi di questi casi, anche se non sempre sui canali mainstream era, ed è, estremamente facilitato grazie a internet. Nel frattempo, invece, l'industria del Fast Fashion ha avuto tutto lo spazio per svilupparsi e imporsi indisturbata, peggiorando ulteriormente le condizioni di vita dei lavoratori della filiera e contribuendo, sostanzialmente, a fare della Moda la seconda industria più inquinante al mondo dopo quella del petrolio. Una situazione denunciata e rimandata da anni... perché proprio adesso va di moda ridiscutere la moda e in una prospettiva etica? Sorge spontaneo chiedersi se si tratti di azioni con un impatto reale o di greenwashing e quali siano i fattori scatenanti di questo positivo e urgente cambio di paradigma culturale, promosso soprattutto da brand di lusso e da consumatori medio e alto spendenti. Chi vende al massimo prezzo si allea con il mercato secondario e chi può spendere di più decide di comprare meno. Sembrano paradossi, ma solo per chi tralascia (o non ammette) che, di fronte ad armadi e bacheche decisamente sovraffollati (con conseguente riduzione dell'utilità marginale ), Ethics is the new ADV, ossia lo strumento attualmente più potente per (ri)affermarsi socialmente e, soprattutto, sul mercato. Nell'epoca dell'autenticità in versione social, l'imperativo è meno popolarità e più reputazione. Di fronte alla saturazione del mercato fast fashion e alla perdita da parte dell'Occidente del ruolo di mercato principale per la prima volta nella storia, forse non conviene più pensare a un abito come a un bene di consumo, quanto piuttosto elevarlo a bene durevole e/o relazionale. L'obiettivo di questo documento è analizzare, attraverso alcuni casi puntuali, il trend della moda responsabile e trasparente. Si rifletterà: sull'impatto della trasformazione digitale in ambito retail; sull'evoluzione del settore nell'ambito della trasparenza delle filiere e della tracciabilità avanzata. Si analizzerano, inoltre, il movimento WHO MADE MY CLOTHES promosso da FASHION REVOLUTION e le case history di USATO FIRMATO e MERCATINO SRL. In questo lavoro cercheremo quindi di comprendere cosa sta cosa sta succedendo e perché, nel tentativo di delineare, seppur parzialmente, i nessi causali e i circoli virtuosi in atto.File | Dimensione | Formato | |
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