Thomas Hobbes ha una concezione meccanicistica e materialistica di tutte le aree del reale, compresa la sensazione, che è la memoria che per qualche tempo in noi rimane delle cose sensibili, anche se trascorrono; infatti sentire di aver sentito è ricordare. La sensazione nasce dall’interazione tra gli organi di senso e un corpo esterno che agisce su tali organi. Quest’azione è costituita esclusivamente dal movimento, il quale giunge fino al cervello che reagisce con la produzione di fantasmi e prosegue fino al cuore, ove incontra il movimento vitale, ovvero il moto circolatorio del sangue il cui mantenimento costituisce ciò che si chiama tendenza all’autoconservazione. Se il moto proveniente dall’esterno è in armonia con il movimento vitale si parla di ‘piacere’; al contrario, se i due movimenti si contrastano e il moto vitale si indebolisce, si ha il ‘dolore’. Piacere e dolore portano l’individuo a ricercare ciò che piace e a rifuggire ciò che dispiace, dando origine a ciò che si chiama ‘desiderio’ in un caso e ‘avversione’ nell’altro. Desiderio e avversione derivano l’uno dal piacevole, l’altra dallo spiacevole, non ancora presente, bensì previsto o atteso. Tutte le cose che si desiderano, poi, in quanto si desiderano, hanno il nome comune di bene, e tutte le cose che fuggiamo il nome comune di male. Molte delle cose buone sono tali in quanto utili per la propria difesa e, quindi, per l’autoconservazione, che è il primo dei beni di ogni individuo. Dunque, il bene è tutto ciò che favorisce la tendenza all’autoconservazione, il male è ciò che la ostacola. Bene e male però non sono concetti assoluti; l’etica hobbesiana, infatti, è relativistica, dal momento che alcuni individui desiderano e rifuggono certe cose, mentre altri ne desiderano e rifuggono altre. In altre parole, si deve necessariamente parlare di bene e male relativamente alla persona, al luogo e al tempo: una medesima cosa a una persona qui ed ora può piacere, ad un’altra lì ed allora può dispiacere. Dal momento che, in base a quanto detto, gli oggetti causano necessariamente appetito o avversione come il risultato della prefigurazione della piacevolezza o del fastidio che da quegli stessi oggetti deriva, l’individuo si orienta necessariamente verso ciò che è in armonia con il suo movimento vitale, ovvero verso ciò che favorisce la sua tendenza all’autoconservazione e che quindi è per lui un bene. Dunque, viene a esclusa a priori ogni capacità di determinazione autonoma da parte della volontà, che è il semplice risultato finale di un contrasto di movimenti interni che si chiamano appetito e avversione. Questi ultimi non derivano dal fatto che desideriamo o fuggiamo intenzionalmente una cosa, ma sono generati dalla stessa cosa desiderata o evitata, dalla quale necessariamente seguirà il prefigurarsi del piacere o della molestia che deriverà dagli oggetti stessi. In altre parole, il desiderare non è libero, dunque neanche il volere; infatti la volontà stessa è desiderio. Per coloro che hanno un desiderio, però, è libera l’azione, cioè è libero di fare qualcosa solamente chi può farla se ne ha la volontà, e può astenersene se ha la volontà di esimersi. In particolare, è la deliberazione, cioè l’ultimo desiderio, che permette all’individuo di fare o non fare una certa cosa propostasi, di agire o meno; l’individuo delibera nel senso che utilizza la propria libertà per muoversi in un senso o nell’altro.
La teoria della percezione di Thomas Hobbes
NOVARA, SIMONE
2022/2023
Abstract
Thomas Hobbes ha una concezione meccanicistica e materialistica di tutte le aree del reale, compresa la sensazione, che è la memoria che per qualche tempo in noi rimane delle cose sensibili, anche se trascorrono; infatti sentire di aver sentito è ricordare. La sensazione nasce dall’interazione tra gli organi di senso e un corpo esterno che agisce su tali organi. Quest’azione è costituita esclusivamente dal movimento, il quale giunge fino al cervello che reagisce con la produzione di fantasmi e prosegue fino al cuore, ove incontra il movimento vitale, ovvero il moto circolatorio del sangue il cui mantenimento costituisce ciò che si chiama tendenza all’autoconservazione. Se il moto proveniente dall’esterno è in armonia con il movimento vitale si parla di ‘piacere’; al contrario, se i due movimenti si contrastano e il moto vitale si indebolisce, si ha il ‘dolore’. Piacere e dolore portano l’individuo a ricercare ciò che piace e a rifuggire ciò che dispiace, dando origine a ciò che si chiama ‘desiderio’ in un caso e ‘avversione’ nell’altro. Desiderio e avversione derivano l’uno dal piacevole, l’altra dallo spiacevole, non ancora presente, bensì previsto o atteso. Tutte le cose che si desiderano, poi, in quanto si desiderano, hanno il nome comune di bene, e tutte le cose che fuggiamo il nome comune di male. Molte delle cose buone sono tali in quanto utili per la propria difesa e, quindi, per l’autoconservazione, che è il primo dei beni di ogni individuo. Dunque, il bene è tutto ciò che favorisce la tendenza all’autoconservazione, il male è ciò che la ostacola. Bene e male però non sono concetti assoluti; l’etica hobbesiana, infatti, è relativistica, dal momento che alcuni individui desiderano e rifuggono certe cose, mentre altri ne desiderano e rifuggono altre. In altre parole, si deve necessariamente parlare di bene e male relativamente alla persona, al luogo e al tempo: una medesima cosa a una persona qui ed ora può piacere, ad un’altra lì ed allora può dispiacere. Dal momento che, in base a quanto detto, gli oggetti causano necessariamente appetito o avversione come il risultato della prefigurazione della piacevolezza o del fastidio che da quegli stessi oggetti deriva, l’individuo si orienta necessariamente verso ciò che è in armonia con il suo movimento vitale, ovvero verso ciò che favorisce la sua tendenza all’autoconservazione e che quindi è per lui un bene. Dunque, viene a esclusa a priori ogni capacità di determinazione autonoma da parte della volontà, che è il semplice risultato finale di un contrasto di movimenti interni che si chiamano appetito e avversione. Questi ultimi non derivano dal fatto che desideriamo o fuggiamo intenzionalmente una cosa, ma sono generati dalla stessa cosa desiderata o evitata, dalla quale necessariamente seguirà il prefigurarsi del piacere o della molestia che deriverà dagli oggetti stessi. In altre parole, il desiderare non è libero, dunque neanche il volere; infatti la volontà stessa è desiderio. Per coloro che hanno un desiderio, però, è libera l’azione, cioè è libero di fare qualcosa solamente chi può farla se ne ha la volontà, e può astenersene se ha la volontà di esimersi. In particolare, è la deliberazione, cioè l’ultimo desiderio, che permette all’individuo di fare o non fare una certa cosa propostasi, di agire o meno; l’individuo delibera nel senso che utilizza la propria libertà per muoversi in un senso o nell’altro.File | Dimensione | Formato | |
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