Il seguente lavoro intende ripercorrere la scrittura della maturità di María Zambrano, la sua ambigua e incarnata grana vocale, le sue figure chiaroscurali, evidenziandone il rapporto col concetto di vuoto, inteso – più che come geografia circoscrivibile – come il “fuori” di alcune geografie dell’esperienza. Si tenterà di mostrare in che senso è possibile parlare di questa scrittura come di una macchina poietica che lavora i propri concetti per sfumature, problematizzandone quindi i margini e la stabilità identitaria, e divenendo una pratica privilegiata della ragione poetica. Prendendo avvio da una ricognizione del concetto di vuoto nel corpus zambraniano, se ne mostrerà il legame col senso del soggetto e della sua parola, dedicando particolare attenzione al ruolo del delirio come declinazione scritturale dell’esposizione alla ferita dell’essere. Per una ricognizione della trattazione esplicita del tema della scrittura, si prenderà invece in esame nel secondo capitolo un articolo del 1934 intitolato "Perché si scrive", da cui si preleveranno semi di riflessioni attorno al tema della solitudine, della volontà, della passività, che non smetteranno di germogliare nel pensiero successivo della filosofa. Il terzo capitolo sarà dedicato all’esplorazione del senso del metaforico nella scrittura di Zambrano – il suo valore conoscitivo più che cosmetico – nonché all’esplorazione di alcune delle sue figure maggiori: il cuore, i chiari del bosco, l’aurora. La scrittura di Zambrano sembra fare ed essere anche un singolare lavoro del lutto sulla perdita di una parola originaria, e al gioco di questo lavoro, sospeso tra trasparenze e opacità, recupero e invenzione, sarà dedicato il quarto capitolo. Attenta sempre al legame tra vita e pensiero, all’annodamento del corpo nel concetto, un’indagine sulla scrittura zambraniana non può prescindere dall’esperienza del suo esilio, e dalle tracce che questo lascia su quella, quella su questo. La conclusione del presente lavoro si focalizzerà quindi sull’esilio come condizione essenziale dell’umano, e sulla scrittura come modo possibile di abitare l’esilio del/dal linguaggio.
Vuoto di struttura e scrittura sul vuoto. Un orecchio su María Zambrano.
MIGNUCCI, VANESSA
2021/2022
Abstract
Il seguente lavoro intende ripercorrere la scrittura della maturità di María Zambrano, la sua ambigua e incarnata grana vocale, le sue figure chiaroscurali, evidenziandone il rapporto col concetto di vuoto, inteso – più che come geografia circoscrivibile – come il “fuori” di alcune geografie dell’esperienza. Si tenterà di mostrare in che senso è possibile parlare di questa scrittura come di una macchina poietica che lavora i propri concetti per sfumature, problematizzandone quindi i margini e la stabilità identitaria, e divenendo una pratica privilegiata della ragione poetica. Prendendo avvio da una ricognizione del concetto di vuoto nel corpus zambraniano, se ne mostrerà il legame col senso del soggetto e della sua parola, dedicando particolare attenzione al ruolo del delirio come declinazione scritturale dell’esposizione alla ferita dell’essere. Per una ricognizione della trattazione esplicita del tema della scrittura, si prenderà invece in esame nel secondo capitolo un articolo del 1934 intitolato "Perché si scrive", da cui si preleveranno semi di riflessioni attorno al tema della solitudine, della volontà, della passività, che non smetteranno di germogliare nel pensiero successivo della filosofa. Il terzo capitolo sarà dedicato all’esplorazione del senso del metaforico nella scrittura di Zambrano – il suo valore conoscitivo più che cosmetico – nonché all’esplorazione di alcune delle sue figure maggiori: il cuore, i chiari del bosco, l’aurora. La scrittura di Zambrano sembra fare ed essere anche un singolare lavoro del lutto sulla perdita di una parola originaria, e al gioco di questo lavoro, sospeso tra trasparenze e opacità, recupero e invenzione, sarà dedicato il quarto capitolo. Attenta sempre al legame tra vita e pensiero, all’annodamento del corpo nel concetto, un’indagine sulla scrittura zambraniana non può prescindere dall’esperienza del suo esilio, e dalle tracce che questo lascia su quella, quella su questo. La conclusione del presente lavoro si focalizzerà quindi sull’esilio come condizione essenziale dell’umano, e sulla scrittura come modo possibile di abitare l’esilio del/dal linguaggio.File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14240/146696