The Shatila refugee camp, located in Beirut, occupies a prominent place in the memory and geographies of the Palestinian exodus, both in Lebanon and internationally. Here the Palestinian diaspora struggled for physical survival in the early settlement period, pursued the revolutionary dream in the 1970s and, more recently, experienced the dramas of defeat and oblivion by the international community. More than seventy years after its creation, four generations of refugees have seen the camp expand, contract, open and close in on itself: like a soft body of varying geometry, it has been able to renew and reshape itself to dialogue with its surrounding context, be it urban, national and international. Spatially, during this time, Shatila has gone from UNRWA's tents to the huge, foundations-less buildings of today: as in a drawing on canvas, the different intensities of agency, place-making and identity experienced by the Palestinian diaspora over time seem to have imprinted themselves on the shape of the camp-space, architectural evidence of a troubled historical parabola in which the camp has been destroyed and rebuilt, emptied and repopulated. Reading and interpreting such spatial developments with politological lenses means, therefore, also understanding the links that exist between space and power: links that, to be properly understood, require theoretical tools ranging from political science to urban planning, from sociology to anthropology. These dynamics, which over time have created distinctive geographies, meanings and demographics, have ended up giving Shatila its current appearance: a space —constructed and human— spurious and fluid, bearing within itself characteristics as much of a refugee camp in the strict sense as of a more common suburb for the metropolitan lumpenproletariat. A terrain of urban marginality where the boundaries between the precariousness of the working classes and the structural liminality of refugees blur and overlap until they become an almost indistinct whole. Drawing on the experience gained during approximately nine months in the field, structured around participatory observation, qualitative interviews and comparison with specialized literature, the paper aims, first and foremost, to read and interrogate today's Shatila in the light of primarily historical and spatial-urban considerations. The ultimate goal is to analyse what factors have diachronically given the camp its present-day connotations, making it a hybrid space that seems to eschew any rigid categorization. Second, a further fundamental objective is to understand the extent to which this hybridization of the camp is influencing —and at the same time reflecting— the condition of the Palestinian community, within Shatila and by reference in the general Lebanese context: the political, spatial and socio-economic implications of these transformations are in fact contributing to exacerbating the already difficult Palestinian situation, now characterized by a more complex, multiple and stratified condition of marginality. Shatila, far from being a non-place or a mere "space of exception," has become a strongly identifiable and meaningful locus for several generations of Palestinians who have known no other place they could call home: the process of erosion of its being a "safe place," a characteristic inherent to the refugee camp by nature, could be for this reason a harbinger of a new historical season in which, for Palestinians, refugee status
Il campo profughi di Shatila, situato a Beirut, occupa un posto di rilievo nella memoria e nelle geografie dell'esodo palestinese, tanto in Libano quanto a livello internazionale. Qui la diaspora palestinese ha lottato per la sopravvivenza fisica nel periodo del primo insediamento, inseguito il sogno rivoluzionario negli anni Settanta e, più recentemente, esperito i drammi della sconfitta e dell'oblio della comunità internazionale. A più di settant'anni dalla sua creazione quattro generazioni di profughi hanno visto il campo espandersi, contrarsi, aprirsi e chiudersi su se stesso: come un corpo molle a geometria variabile, esso ha saputo rinnovarsi e rimodularsi per dialogare con il contesto circostante, fosse questo urbano, nazionale e internazionale. Spazialmente, in questo lasso di tempo, Shatila è passato dalle tende di UNRWA agli enormi palazzi senza fondamenta di oggi: come in un disegno su tela, le diverse intensità di agency, place-making e identità sperimentati dalla diaspora palestinese nel tempo sembrano essersi impresse sulla forma dello spazio-campo, testimonianza architettonica di una tormentata parabola storica in cui il campo è stato distrutto e ricostruito, svuotato e ripopolato. Leggere e interpretare tali sviluppi spaziali con lenti politologiche significa, quindi, anche comprendere i nessi che sussistono tra spazio e potere: legami che, per essere opportunamente compresi, necessitano di strumenti teorici che spazino dalle scienze politiche all'urbanistica, dalla sociologia all'antropologia. Queste dinamiche, che nel tempo hanno creato geografie, significati e demografie peculiari, hanno finito col conferire a Shatila le sue sembianze attuali: uno spazio —costruito e umano— spurio e fluido, recante in sé caratteristiche proprie tanto di un campo profughi in senso stretto quanto di un più comune sobborgo del lumpenproletariat metropolitano. Un terreno di marginalità urbana dove i confini tra la precarietà delle classi popolari e la liminalità strutturale dei profughi sfumano e si sovrappongono fino a diventare un insieme quasi indistinto. Sfruttando l'esperienza maturata in circa nove mesi di permanenza sul campo, strutturata intorno ad osservazione partecipata, interviste qualitative e al confronto con la letteratura specialistica, l'elaborato si prefigge, in primo luogo, di leggere e interrogare l'odierna Shatila alla luce di considerazioni di carattere prevalentemente storico e spaziale-urbanistico. Fine ultimo è di analizzare quali fattori abbiano diacronicamente conferito al campo i connotati odierni, facendone uno spazio ibrido che sembra rifuggire ogni categorizzazione rigida. In secondo luogo, ulteriore obiettivo fondamentale è quello di comprendere in che misura tale ibridazione del campo stia influenzando —e insieme rispecchiando— la condizione della comunità palestinese, dentro Shatila e di rimando nel generale contesto libanese: i risvolti politici, spaziali e socio-economici di queste trasformazioni stanno infatti contribuendo ad acuire la già difficile situazione palestinese, ora caratterizzata da una condizione di marginalità più complessa, multipla e stratificata. Shatila, lungi dall'essere un non-luogo o un mero "space of exception", è diventato un locus fortemente identitario e significativo per diverse generazioni di palestinesi che non hanno conosciuto altri luoghi che potessero chiamare casa.
SPAZI CONTESI: CAMPO PROFUGHI O SLUM URBANO? - Shatila tra rifugio e dispositivo estroflesso
ASSOLARI, LUCA
2022/2023
Abstract
Il campo profughi di Shatila, situato a Beirut, occupa un posto di rilievo nella memoria e nelle geografie dell'esodo palestinese, tanto in Libano quanto a livello internazionale. Qui la diaspora palestinese ha lottato per la sopravvivenza fisica nel periodo del primo insediamento, inseguito il sogno rivoluzionario negli anni Settanta e, più recentemente, esperito i drammi della sconfitta e dell'oblio della comunità internazionale. A più di settant'anni dalla sua creazione quattro generazioni di profughi hanno visto il campo espandersi, contrarsi, aprirsi e chiudersi su se stesso: come un corpo molle a geometria variabile, esso ha saputo rinnovarsi e rimodularsi per dialogare con il contesto circostante, fosse questo urbano, nazionale e internazionale. Spazialmente, in questo lasso di tempo, Shatila è passato dalle tende di UNRWA agli enormi palazzi senza fondamenta di oggi: come in un disegno su tela, le diverse intensità di agency, place-making e identità sperimentati dalla diaspora palestinese nel tempo sembrano essersi impresse sulla forma dello spazio-campo, testimonianza architettonica di una tormentata parabola storica in cui il campo è stato distrutto e ricostruito, svuotato e ripopolato. Leggere e interpretare tali sviluppi spaziali con lenti politologiche significa, quindi, anche comprendere i nessi che sussistono tra spazio e potere: legami che, per essere opportunamente compresi, necessitano di strumenti teorici che spazino dalle scienze politiche all'urbanistica, dalla sociologia all'antropologia. Queste dinamiche, che nel tempo hanno creato geografie, significati e demografie peculiari, hanno finito col conferire a Shatila le sue sembianze attuali: uno spazio —costruito e umano— spurio e fluido, recante in sé caratteristiche proprie tanto di un campo profughi in senso stretto quanto di un più comune sobborgo del lumpenproletariat metropolitano. Un terreno di marginalità urbana dove i confini tra la precarietà delle classi popolari e la liminalità strutturale dei profughi sfumano e si sovrappongono fino a diventare un insieme quasi indistinto. Sfruttando l'esperienza maturata in circa nove mesi di permanenza sul campo, strutturata intorno ad osservazione partecipata, interviste qualitative e al confronto con la letteratura specialistica, l'elaborato si prefigge, in primo luogo, di leggere e interrogare l'odierna Shatila alla luce di considerazioni di carattere prevalentemente storico e spaziale-urbanistico. Fine ultimo è di analizzare quali fattori abbiano diacronicamente conferito al campo i connotati odierni, facendone uno spazio ibrido che sembra rifuggire ogni categorizzazione rigida. In secondo luogo, ulteriore obiettivo fondamentale è quello di comprendere in che misura tale ibridazione del campo stia influenzando —e insieme rispecchiando— la condizione della comunità palestinese, dentro Shatila e di rimando nel generale contesto libanese: i risvolti politici, spaziali e socio-economici di queste trasformazioni stanno infatti contribuendo ad acuire la già difficile situazione palestinese, ora caratterizzata da una condizione di marginalità più complessa, multipla e stratificata. Shatila, lungi dall'essere un non-luogo o un mero "space of exception", è diventato un locus fortemente identitario e significativo per diverse generazioni di palestinesi che non hanno conosciuto altri luoghi che potessero chiamare casa.I documenti in UNITESI sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.
https://hdl.handle.net/20.500.14240/146200