Nel vasto panorama dell’arte e dell’espressione umana, il cinema emerge come una forma di narrazione visiva ed emozionale che ha il potere di riflettere, interpretare e provocare profonde riflessioni sulla vita stessa e su uno dei suoi aspetti più enigmatici e inevitabili: la morte. Esplorare come il cinema rappresenta la morte, sia in termini visivi che di sottotesto culturale, ci permette di scrutare le profondità dell’animo umano, affrontandone paure, speranze e interrogativi universali. Mettendo in scena la morte, il cinema innesca già un fenomeno di distanziamento dall’evento reale, che si trova a essere relegato fra i quattro bordi del grande schermo, raggelato in una composizione verosimile ma fittizia, dunque accettabile nelle sue componenti più drammatiche e insostenibili, quasi a compenso della rimozione sociale della morte reale nella società contemporanea. Tentiamo dunque di trovare un filo conduttore tra il fascino che la morte esercita sulle persone e il modo in cui il cinema se ne occupa. Saremmo portati a pensare che il genere più adatto per parlare di questo argomento è l’horror ma in realtà abbiamo innumerevoli rappresentazioni della morte nei vari generi cinematografici. In particolare, ci concentreremo sulla morte personificata, a scopo e in che modo rendere un concetto così reale e allo stesso tempo astratto una persona simile a noi? Forse per privarla di quel potere di incutere timore, renderla umana e quindi fallibile, simile a qualcosa che conosciamo. Partendo da Il settimo sigillo di Ingmar Bergman fino ad arrivare a film e serie più recenti come Vi presento Joe Black di Martin Brest e l’ultima uscita Netflix di Mike Flanagan, La caduta della casa degli Usher; la morte assume svariate forme, un uomo incappucciato vestito di nero, un giovane, una donna affascinate e molti altri. Eppure, ci sono dei temi ricorrenti nella sua rappresentazione che ce la fanno riconoscere quasi subito, la falce, un mantello nero, l’assenza di un volto, sono le caratteristiche che solitamente vediamo più spesso, per questo molti registi si divertono a cambiare le regole del gioco rendendola un giovane affascinante o una donna di poche parole. La morte, la nostra, è veramente nata nel XVI secolo. Essa ha perduto la sua falce, il suo orologio, ha perduto i Cavalieri dell'Apocalisse e i giochi grotteschi e macabri del medioevo. Tutto questo era ancora un folclore e una festa, attraverso la quale la morte si scambiava ancora, certo non con l’efficacia simbolica dei primitivi [...]. La sua scomparsa nell'immaginario non è che il segno della sua interiorizzazione psicologica, quando la morte cessa di essere la grande mietitrice per diventare l'angoscia della morte.
La morte al cinema. Rappresentazioni antropomorfe della morte nel film dalle origini ad oggi.
PUCCETTI, ELISA
2023/2024
Abstract
Nel vasto panorama dell’arte e dell’espressione umana, il cinema emerge come una forma di narrazione visiva ed emozionale che ha il potere di riflettere, interpretare e provocare profonde riflessioni sulla vita stessa e su uno dei suoi aspetti più enigmatici e inevitabili: la morte. Esplorare come il cinema rappresenta la morte, sia in termini visivi che di sottotesto culturale, ci permette di scrutare le profondità dell’animo umano, affrontandone paure, speranze e interrogativi universali. Mettendo in scena la morte, il cinema innesca già un fenomeno di distanziamento dall’evento reale, che si trova a essere relegato fra i quattro bordi del grande schermo, raggelato in una composizione verosimile ma fittizia, dunque accettabile nelle sue componenti più drammatiche e insostenibili, quasi a compenso della rimozione sociale della morte reale nella società contemporanea. Tentiamo dunque di trovare un filo conduttore tra il fascino che la morte esercita sulle persone e il modo in cui il cinema se ne occupa. Saremmo portati a pensare che il genere più adatto per parlare di questo argomento è l’horror ma in realtà abbiamo innumerevoli rappresentazioni della morte nei vari generi cinematografici. In particolare, ci concentreremo sulla morte personificata, a scopo e in che modo rendere un concetto così reale e allo stesso tempo astratto una persona simile a noi? Forse per privarla di quel potere di incutere timore, renderla umana e quindi fallibile, simile a qualcosa che conosciamo. Partendo da Il settimo sigillo di Ingmar Bergman fino ad arrivare a film e serie più recenti come Vi presento Joe Black di Martin Brest e l’ultima uscita Netflix di Mike Flanagan, La caduta della casa degli Usher; la morte assume svariate forme, un uomo incappucciato vestito di nero, un giovane, una donna affascinate e molti altri. Eppure, ci sono dei temi ricorrenti nella sua rappresentazione che ce la fanno riconoscere quasi subito, la falce, un mantello nero, l’assenza di un volto, sono le caratteristiche che solitamente vediamo più spesso, per questo molti registi si divertono a cambiare le regole del gioco rendendola un giovane affascinante o una donna di poche parole. La morte, la nostra, è veramente nata nel XVI secolo. Essa ha perduto la sua falce, il suo orologio, ha perduto i Cavalieri dell'Apocalisse e i giochi grotteschi e macabri del medioevo. Tutto questo era ancora un folclore e una festa, attraverso la quale la morte si scambiava ancora, certo non con l’efficacia simbolica dei primitivi [...]. La sua scomparsa nell'immaginario non è che il segno della sua interiorizzazione psicologica, quando la morte cessa di essere la grande mietitrice per diventare l'angoscia della morte. File | Dimensione | Formato | |
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