Il seguente lavoro nasce da alcune domande critiche riguardanti il ruolo della filosofia e i suoi confini disciplinari. Il termine bioetica, da bios (vita) e ethos (morale), comparve per la prima volta nel 1970. Lo riporta un articolo, The Science of Survival, della rivista Perspectives in Biology and Medicine scritto dall’oncologo Van Rensselaer Potter. Per la prima metà del Novecento tutte le novità della medicina furono accolte come una preziosa risorsa. Solo all’inizio degli anni Sessanta l’ottimismo iniziò a vacillare per far spazio alla preoccupazione. Il medico, da figura familiare e intima, si stava trasformando in un tecnico al servizio del progresso. I doveri tradizionali vennero fortemente scossi dai nuovi scenari: non è più chiaro cosa sia un beneficio e cosa un danno, se la vita abbia sempre valore, se la morte sia davvero il peggiore dei mali. In questo contesto emerge la bioetica, la cui novità, e al contempo sfida, è proprio quella di avere la possibilità di indagare le questioni etiche sollevate dal progresso; una correlazione tra la teoria e la pratica, il tentativo di applicare le strutture astratte dello studio accademico, ai problemi reali dai quali nasce la stessa analisi. L’esistenza stessa della disciplina è testimonianza di una necessità di analisi e comprensione delle questioni morali che il progresso e determinate situazioni cliniche ci pongono. La seconda parte della tesi, vuole proprio sottolineare l’utilità di una figura quale quella del bioeticista, attraverso un’analisi del concetto di expertise e più in generale del riconoscimento dell’esperto. Indagata la competenza del bioeticista, si è dedicata una sezione agli strumenti utilizzati da questo: la razionalità e la lingua. Il filosofo è colui che accompagna nel percorso di ricerca delle motivazioni che possano giustificare agli altri e, prima ancora a noi stessi, le decisioni prese. Promuove uno sguardo razionale sulle questioni etiche, non per renderle qualcosa di asettico e completamente privo di sensibilità e umanità. La razionalità è promossa nel lavoro di analisi concettuale perché al contrario del sentimento, ci permette di avere un criterio che possa prescindere dal sentire proprio di ogni individualità. Il sentire, infatti, non è opinabile. Se una persona sente una determinata emozione, non si ha il diritto di pronunciarsi al riguardo in termini prescrittivi. Al contrario su quel che si pensa, c’è la possibilità di lavorare filosoficamente. Il secondo strumento individuato è quello del linguaggio: dalla confusione del linguaggio nascono non solo confusioni teoriche ma anche perplessità pratiche, mentre un’adeguata comprensione degli enunciati contribuisce a delucidare i problemi dell’etica stessa. Saper padroneggiare la lingua non significa utilizzare parole altisonanti e sconosciute ai nostri interlocutori, o almeno non sempre. Per come è stato inteso, significa essere a proprio agio nel tradurre i pensieri. L’ultima parte del lavoro prende le mosse da alcune interviste svolte con l’obiettivo di far emergere l’importanza della figura del bioeticista, intento condotto nel corso del secondo capitolo e riscontrato attraverso il confronto con le realtà incontrate.

Bioetica: da dove, verso dove. Un'analisi sul contributo della filosofia nelle aziende ospedaliere.

TURCO, MIRIANA
2021/2022

Abstract

Il seguente lavoro nasce da alcune domande critiche riguardanti il ruolo della filosofia e i suoi confini disciplinari. Il termine bioetica, da bios (vita) e ethos (morale), comparve per la prima volta nel 1970. Lo riporta un articolo, The Science of Survival, della rivista Perspectives in Biology and Medicine scritto dall’oncologo Van Rensselaer Potter. Per la prima metà del Novecento tutte le novità della medicina furono accolte come una preziosa risorsa. Solo all’inizio degli anni Sessanta l’ottimismo iniziò a vacillare per far spazio alla preoccupazione. Il medico, da figura familiare e intima, si stava trasformando in un tecnico al servizio del progresso. I doveri tradizionali vennero fortemente scossi dai nuovi scenari: non è più chiaro cosa sia un beneficio e cosa un danno, se la vita abbia sempre valore, se la morte sia davvero il peggiore dei mali. In questo contesto emerge la bioetica, la cui novità, e al contempo sfida, è proprio quella di avere la possibilità di indagare le questioni etiche sollevate dal progresso; una correlazione tra la teoria e la pratica, il tentativo di applicare le strutture astratte dello studio accademico, ai problemi reali dai quali nasce la stessa analisi. L’esistenza stessa della disciplina è testimonianza di una necessità di analisi e comprensione delle questioni morali che il progresso e determinate situazioni cliniche ci pongono. La seconda parte della tesi, vuole proprio sottolineare l’utilità di una figura quale quella del bioeticista, attraverso un’analisi del concetto di expertise e più in generale del riconoscimento dell’esperto. Indagata la competenza del bioeticista, si è dedicata una sezione agli strumenti utilizzati da questo: la razionalità e la lingua. Il filosofo è colui che accompagna nel percorso di ricerca delle motivazioni che possano giustificare agli altri e, prima ancora a noi stessi, le decisioni prese. Promuove uno sguardo razionale sulle questioni etiche, non per renderle qualcosa di asettico e completamente privo di sensibilità e umanità. La razionalità è promossa nel lavoro di analisi concettuale perché al contrario del sentimento, ci permette di avere un criterio che possa prescindere dal sentire proprio di ogni individualità. Il sentire, infatti, non è opinabile. Se una persona sente una determinata emozione, non si ha il diritto di pronunciarsi al riguardo in termini prescrittivi. Al contrario su quel che si pensa, c’è la possibilità di lavorare filosoficamente. Il secondo strumento individuato è quello del linguaggio: dalla confusione del linguaggio nascono non solo confusioni teoriche ma anche perplessità pratiche, mentre un’adeguata comprensione degli enunciati contribuisce a delucidare i problemi dell’etica stessa. Saper padroneggiare la lingua non significa utilizzare parole altisonanti e sconosciute ai nostri interlocutori, o almeno non sempre. Per come è stato inteso, significa essere a proprio agio nel tradurre i pensieri. L’ultima parte del lavoro prende le mosse da alcune interviste svolte con l’obiettivo di far emergere l’importanza della figura del bioeticista, intento condotto nel corso del secondo capitolo e riscontrato attraverso il confronto con le realtà incontrate.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.14240/144876