Il lavoro intende illustrare la detenzione amministrativa quale forma di detenzione per gli stranieri, in particolare attraverso il caso italiano dei Centri di identificazione ed espulsione (Cie), attuali Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr), domandandosi, ancora prima di poterla definire, se sia corretto utilizzare tale termine in riferimento alle misure prese dagli Stati europei a fronte dei flussi migratori. Porsi tali domande è necessario in quanto le fonti italiane ed europee non si preoccupano di definire la forma di trattenimento per gli stranieri e spesso non utilizzano il termine di detenzione, creando l'illusione che la restrizione della libertà personale applicata a donne e uomini stranieri non possa essere paragonata ad una misura limitativa della libertà di movimento al pari di quella dettata dal diritto penale. Dopo un'introduzione della normativa italiana in materia di immigrazione irregolare, ci si rivolge alla ricerca della definizione di tali luoghi di trattenimento, al fine di comprendere se la permanenza all'interno degli stessi possa essere considerata al pari della detenzione carceraria, pur sapendo che la detenzione all'interno dei Cie non viene disposta da un giudice, come invece previsto in ambito penale. Inizialmente è necessario interrogarsi sul significato del termine e sul come, a partire dalle scarse disposizioni in materia, si possa essere giunti alla costruzione di centri che appaiono come degli istituti penitenziari, essendo recintate da muri spessi e filo spinato. La risposta si trova in due aspetti essenziali delle politiche carcerarie: da un lato la rappresentazione dello straniero come soggetto pericoloso e di conseguenza da neutralizzare, al pari del criminale; dall'altro l'occultamento di questi luoghi, vale a dire la volontà dello Stato di nasconderli agli occhi della società, probabilmente per la loro quasi inesistente aderenza ai principi costituzionali in particolare. Infine, nell'ultimo capitolo si tenta di rispondere ad altri interrogativi prendendo attraverso il caso studio del Centro di identificazione ed espulsione di Torino. In particolare, vengono analizzati i dati che riguardano il quinquennio 2011-2016, scelto per i grandi cambiamenti legislativi che abbraccia, dalla Return Directive (2011-12) alla Roadmap italiana del Ministero dell'Interno (2015), prima del cambiamento formale del nome in Centri di permanenza per i rimpatri con il decreto Minniti-Orlando (2017). Attraverso una raccolta di dati, collezionati grazie a pubblicazioni occasionali (non è infatti prevista una pubblicazione di dati ufficiale da parte del Governo), vengono messe in luce la gestione del Centro, amministrativa e poco trasparente, l'inadeguatezza della struttura e le caratteristiche dei soggetti trattenuti. Ci si interroga innanzitutto sulla reale funzione dei Cie, in cui la funzione dichiarata, vale a dire quella dell'identificazione al fine dell'espulsione, cede il passo ad una volontà repressiva; successivamente sulla loro efficacia sia in termini di percentuale di rimpatri effettivi, sia in termini di ¿prevenzione¿, vale a dire se si possa ricercare un'efficacia deterrente nella previsione del trattenimento. In questo modo si può dimostrare l'illegittimità di una forma di detenzione per soli stranieri la quale si fonda sugli stessi principi ed è rivolta allo stesso obiettivo delle sanzioni in ambito penale, ma la quale è decisa in ambito amministrativo.
La detenzione amministrativa degli stranieri
MELLANA, CECILIA
2016/2017
Abstract
Il lavoro intende illustrare la detenzione amministrativa quale forma di detenzione per gli stranieri, in particolare attraverso il caso italiano dei Centri di identificazione ed espulsione (Cie), attuali Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr), domandandosi, ancora prima di poterla definire, se sia corretto utilizzare tale termine in riferimento alle misure prese dagli Stati europei a fronte dei flussi migratori. Porsi tali domande è necessario in quanto le fonti italiane ed europee non si preoccupano di definire la forma di trattenimento per gli stranieri e spesso non utilizzano il termine di detenzione, creando l'illusione che la restrizione della libertà personale applicata a donne e uomini stranieri non possa essere paragonata ad una misura limitativa della libertà di movimento al pari di quella dettata dal diritto penale. Dopo un'introduzione della normativa italiana in materia di immigrazione irregolare, ci si rivolge alla ricerca della definizione di tali luoghi di trattenimento, al fine di comprendere se la permanenza all'interno degli stessi possa essere considerata al pari della detenzione carceraria, pur sapendo che la detenzione all'interno dei Cie non viene disposta da un giudice, come invece previsto in ambito penale. Inizialmente è necessario interrogarsi sul significato del termine e sul come, a partire dalle scarse disposizioni in materia, si possa essere giunti alla costruzione di centri che appaiono come degli istituti penitenziari, essendo recintate da muri spessi e filo spinato. La risposta si trova in due aspetti essenziali delle politiche carcerarie: da un lato la rappresentazione dello straniero come soggetto pericoloso e di conseguenza da neutralizzare, al pari del criminale; dall'altro l'occultamento di questi luoghi, vale a dire la volontà dello Stato di nasconderli agli occhi della società, probabilmente per la loro quasi inesistente aderenza ai principi costituzionali in particolare. Infine, nell'ultimo capitolo si tenta di rispondere ad altri interrogativi prendendo attraverso il caso studio del Centro di identificazione ed espulsione di Torino. In particolare, vengono analizzati i dati che riguardano il quinquennio 2011-2016, scelto per i grandi cambiamenti legislativi che abbraccia, dalla Return Directive (2011-12) alla Roadmap italiana del Ministero dell'Interno (2015), prima del cambiamento formale del nome in Centri di permanenza per i rimpatri con il decreto Minniti-Orlando (2017). Attraverso una raccolta di dati, collezionati grazie a pubblicazioni occasionali (non è infatti prevista una pubblicazione di dati ufficiale da parte del Governo), vengono messe in luce la gestione del Centro, amministrativa e poco trasparente, l'inadeguatezza della struttura e le caratteristiche dei soggetti trattenuti. Ci si interroga innanzitutto sulla reale funzione dei Cie, in cui la funzione dichiarata, vale a dire quella dell'identificazione al fine dell'espulsione, cede il passo ad una volontà repressiva; successivamente sulla loro efficacia sia in termini di percentuale di rimpatri effettivi, sia in termini di ¿prevenzione¿, vale a dire se si possa ricercare un'efficacia deterrente nella previsione del trattenimento. In questo modo si può dimostrare l'illegittimità di una forma di detenzione per soli stranieri la quale si fonda sugli stessi principi ed è rivolta allo stesso obiettivo delle sanzioni in ambito penale, ma la quale è decisa in ambito amministrativo.File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14240/142494