La teoria della selezione parentale venne proposta nel 1964 da W. D. Hamilton, al fine di spiegare i comportamenti di altruismo e cooperazione nelle popolazioni animali, ovvero tutte quelle azioni volte a incrementare la fitness dell’individuo a cui sono rivolte ma che implicano un costo per l’individuo che le compie. Secondo la teoria, questi comportamenti dipendono dal grado di parentela tra due individui e quindi dalla probabilità che un gene di un individuo sia presente in una copia identica per discendenza nell’altro. Più in generale, ogni tratto che influisce sul successo riproduttivo di individui imparentati dovrebbe rispondere a questa legge, perciò anche le interazioni di carattere sessuale in una popolazione animale, attraverso la modulazione dell’intensità dei conflitti sessuali e la promozione di cooperazione e altruismo tra parenti. Gli effetti sui meccanismi di selezione sessuale derivanti dal processo di selezione parentale sono stati evidenziati in molte specie. Un esempio è dato dall’uccello giardiniere satinato (Ptilonorhynchus violaceus), una specie con un sistema di accoppiamento basato sui lek, aree di aggregazione di individui maschi che le femmine possono visitare con il solo scopo di riprodursi. La parentela tra gli individui maschi limita i comportamenti aggressivi tra questi e influisce sulla localizzazione dei siti di display: maschi imparentati sono infatti meno aggressivi tra loro e si associano per mitigare gli effetti delle interazioni negative con altri maschi. Le conseguenze della parentela sulle interazioni sessuali si registrano anche sulla produttività femminile: negli acari del bulbo (Rhizoglyphus robini), l’evoluzione in gruppi di individui imparentati è risultata in un aumento dell’output riproduttivo e della fecondità delle femmine, determinato anche da una diminuzione dei conflitti sessuali tra i maschi. Inoltre, comportamenti altruistici tra parenti dovrebbero poter essere registrati anche nelle interazioni intersessuali, cioè quando è presente la possibilità di accoppiamento tra due parenti. Uno studio condotto sulla specie modello Drosophila melanogaster mostra che, nonostante una diminuzione dell’aggressività tra maschi imparentati, non sono stati notati vantaggi in termini di fitness per la femmina, e i maschi hanno agito in modo antagonistico sia verso le loro sorelle sia verso femmine non imparentate. La selezione parentale, quindi, come processo evolutivo, è in grado di portare a marcate differenze nell’entità dei conflitti sessuali e, in un contesto più ampio, nei comportamenti riproduttivi; nonostante ciò, la teoria offre una spiegazione parziale e insufficiente, ed è quindi essenziale ricercare altri fattori che possano influire sulla struttura delle società animali e sull’evoluzione di comportamenti altruistici e cooperativi.

Selezione parentale e la modulazione dei conflitti sessuali nelle società animali

CAPUSSO, LINDA
2021/2022

Abstract

La teoria della selezione parentale venne proposta nel 1964 da W. D. Hamilton, al fine di spiegare i comportamenti di altruismo e cooperazione nelle popolazioni animali, ovvero tutte quelle azioni volte a incrementare la fitness dell’individuo a cui sono rivolte ma che implicano un costo per l’individuo che le compie. Secondo la teoria, questi comportamenti dipendono dal grado di parentela tra due individui e quindi dalla probabilità che un gene di un individuo sia presente in una copia identica per discendenza nell’altro. Più in generale, ogni tratto che influisce sul successo riproduttivo di individui imparentati dovrebbe rispondere a questa legge, perciò anche le interazioni di carattere sessuale in una popolazione animale, attraverso la modulazione dell’intensità dei conflitti sessuali e la promozione di cooperazione e altruismo tra parenti. Gli effetti sui meccanismi di selezione sessuale derivanti dal processo di selezione parentale sono stati evidenziati in molte specie. Un esempio è dato dall’uccello giardiniere satinato (Ptilonorhynchus violaceus), una specie con un sistema di accoppiamento basato sui lek, aree di aggregazione di individui maschi che le femmine possono visitare con il solo scopo di riprodursi. La parentela tra gli individui maschi limita i comportamenti aggressivi tra questi e influisce sulla localizzazione dei siti di display: maschi imparentati sono infatti meno aggressivi tra loro e si associano per mitigare gli effetti delle interazioni negative con altri maschi. Le conseguenze della parentela sulle interazioni sessuali si registrano anche sulla produttività femminile: negli acari del bulbo (Rhizoglyphus robini), l’evoluzione in gruppi di individui imparentati è risultata in un aumento dell’output riproduttivo e della fecondità delle femmine, determinato anche da una diminuzione dei conflitti sessuali tra i maschi. Inoltre, comportamenti altruistici tra parenti dovrebbero poter essere registrati anche nelle interazioni intersessuali, cioè quando è presente la possibilità di accoppiamento tra due parenti. Uno studio condotto sulla specie modello Drosophila melanogaster mostra che, nonostante una diminuzione dell’aggressività tra maschi imparentati, non sono stati notati vantaggi in termini di fitness per la femmina, e i maschi hanno agito in modo antagonistico sia verso le loro sorelle sia verso femmine non imparentate. La selezione parentale, quindi, come processo evolutivo, è in grado di portare a marcate differenze nell’entità dei conflitti sessuali e, in un contesto più ampio, nei comportamenti riproduttivi; nonostante ciò, la teoria offre una spiegazione parziale e insufficiente, ed è quindi essenziale ricercare altri fattori che possano influire sulla struttura delle società animali e sull’evoluzione di comportamenti altruistici e cooperativi.
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