Sin dal Neolitico, l’uomo ha causato impatti sempre più rilevanti sulla maggior parte degli ecosistemi, tali da portare al diffuso stato di degrado evidenziabile in molti ecosistemi e alla crisi di biodiversità attuali, tanto gravi da parlare di sesta estinzione di massa. In questo contesto, alla fine del secolo scorso, è emersa la necessità di trovare una risposta a tali problematiche che fosse più radicale ed ampia rispetto ai metodi per la conservazione della natura fino ad allora diffusi. È nata quindi la disciplina del rewilding, inizialmente incentrata sul recupero della wilderness, ovvero di aree incontaminate dall’attività umana, per poi con il tempo far assumere centralità al concetto di wildness, intesa come l’autonomia dei processi ecologici, rinunciando allo storico controllo dell’uomo sulle dinamiche naturali. La capacità di autosostenersi degli ecosistemi è legata a diverse componenti che sono quindi oggetto dei progetti di rewilding. Tra queste, particolare rilevanza viene data agli effetti della fauna di grandi dimensioni sui diversi livelli trofici inferiori. Spesso le attività includono quindi la reintroduzione di specie chiave mancanti dal sistema per recuperarne i ruoli ecosistemici, anche attraverso sostituti ecologicamente simili. Gli approcci più moderni al tema hanno poi incluso altre tipologie di intervento, tra cui la gestione passiva del paesaggio, principalmente nel contesto dell’abbandono delle terre rurali in Europa. La multivalenza del termine consente a diverse visioni di essere incluse, ma d’altra parte viene criticata da una parte della comunità scientifica per il rischio di incomprensioni e per la sua difficile trasposizione nella pratica e nella politica. Resta inoltre acceso il dibattito sull’inclusione o meno di questa nuova teoria nella disciplina del ripristino ecologico, già affermata a livello globale, visti i molti punti in comune. Il rewilding è divenuto un termine sempre più popolare tra gli esperti del settore e non solo, fino ad essere considerato all’interno di alcune delle maggiori iniziative di ripristino ecologico e sostenibilità ambientale a livello mondiale, tra cui gli Obbiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’ONU e la Decade sul Ripristino degli Ecosistemi, istituita dalle Nazioni Unite per questo decennio, 2021-2030. Nella presente relazione viene fatta chiarezza in merito ai diversi utilizzi del termine nel contesto di alcuni casi studio e sui relativi principi guida. Verranno inoltre messi a confronto le due discipline del rewilding e del ripristino ecologico per evidenziarne fattori comuni e peculiarità, per poi ipotizzarne le prospettive future.

Rewilding e ripristino ecologico: principi guida e prospettive future

CAVALLO, SIMONA
2021/2022

Abstract

Sin dal Neolitico, l’uomo ha causato impatti sempre più rilevanti sulla maggior parte degli ecosistemi, tali da portare al diffuso stato di degrado evidenziabile in molti ecosistemi e alla crisi di biodiversità attuali, tanto gravi da parlare di sesta estinzione di massa. In questo contesto, alla fine del secolo scorso, è emersa la necessità di trovare una risposta a tali problematiche che fosse più radicale ed ampia rispetto ai metodi per la conservazione della natura fino ad allora diffusi. È nata quindi la disciplina del rewilding, inizialmente incentrata sul recupero della wilderness, ovvero di aree incontaminate dall’attività umana, per poi con il tempo far assumere centralità al concetto di wildness, intesa come l’autonomia dei processi ecologici, rinunciando allo storico controllo dell’uomo sulle dinamiche naturali. La capacità di autosostenersi degli ecosistemi è legata a diverse componenti che sono quindi oggetto dei progetti di rewilding. Tra queste, particolare rilevanza viene data agli effetti della fauna di grandi dimensioni sui diversi livelli trofici inferiori. Spesso le attività includono quindi la reintroduzione di specie chiave mancanti dal sistema per recuperarne i ruoli ecosistemici, anche attraverso sostituti ecologicamente simili. Gli approcci più moderni al tema hanno poi incluso altre tipologie di intervento, tra cui la gestione passiva del paesaggio, principalmente nel contesto dell’abbandono delle terre rurali in Europa. La multivalenza del termine consente a diverse visioni di essere incluse, ma d’altra parte viene criticata da una parte della comunità scientifica per il rischio di incomprensioni e per la sua difficile trasposizione nella pratica e nella politica. Resta inoltre acceso il dibattito sull’inclusione o meno di questa nuova teoria nella disciplina del ripristino ecologico, già affermata a livello globale, visti i molti punti in comune. Il rewilding è divenuto un termine sempre più popolare tra gli esperti del settore e non solo, fino ad essere considerato all’interno di alcune delle maggiori iniziative di ripristino ecologico e sostenibilità ambientale a livello mondiale, tra cui gli Obbiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’ONU e la Decade sul Ripristino degli Ecosistemi, istituita dalle Nazioni Unite per questo decennio, 2021-2030. Nella presente relazione viene fatta chiarezza in merito ai diversi utilizzi del termine nel contesto di alcuni casi studio e sui relativi principi guida. Verranno inoltre messi a confronto le due discipline del rewilding e del ripristino ecologico per evidenziarne fattori comuni e peculiarità, per poi ipotizzarne le prospettive future.
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