Questa trattazione riguarda la chirurgia estetica e le relative implicazioni nel campo della bioetica, disciplina che si occupa di studiare i problemi delle scelte morali in questioni aventi a che fare con la vita biologica. Cercando di sgombrare il più possibile la mente da opinioni ricevute, pregiudizi e stereotipi, ho analizzato le considerazioni più frequentemente elaborate dal senso comune, nella ricerca delle reali motivazioni che spingono un individuo a modificare il proprio aspetto esteriore. E' giusto, ci si chiede, modificare a piacimento il proprio corpo senza che ciò incida sulla sopravvivenza dell'individuo, ossia senza che il ricorso alla chirurgia sia necessario per evitare la morte, allievare una sofferenza fisica o prevenirne l'avvento? E' legittimo utilizzare ogni risorsa prodotta dal progresso tecnico-scientifico al fine di migliorare il proprio aspetto, guidati da una serie di canoni estetici soggetti a mutamenti frequenti? Un individuo può sentirsi libero di adoperare i mezzi messi a disposizione dalla scienza per decidere così profondamente del proprio corpo, alterandone l'aspetto senza rendere conto delle sue decisioni? Sono queste alcune delle domande che sorgono quando si affronta la questione degli interventi della chirurgia estetica e della loro legittimità. La chirurgia plastica viene suddivisa in due branche, ricostruttiva ed estetica; mentre la prima comprende gli interventi volti a ripristinare e restaurare, perché deturpate da cause diverse, quali incidenti, difetti congeniti o malattie, le varie parti del corpo, la seconda viene invece utilizzata per modificarne l'aspetto esteriore, migliorandolo o mantenendolo, senza che sia necessariamente presente un difetto appariscente o una menomazione invalidante per chi ne è portatore. Le apparenti differenze vengono però conciliate dalla stessa medesima finalità: ripristinare il benessere psicofisico dell'individuo, invalidato da una percezione negativa del proprio aspetto, indipendentemente dal fatto che il presunto difetto possa godere di una valutazione obiettiva o per lo più soggettiva. L'eliminazione della sofferenza è l'obiettivo primario che il chirurgo si pone, e in questa prospettiva i due rami della chirurgia plastica si uniscono l'uno all'altro. Necessaria risulta essere la valutazione del reale motivo che spinge l'individuo a ricorrere alla chirurgia: il rischio che dietro alla sua richiesta si nasconda una patologia è reale e da non sottovalutare. La dismorfofobia, l'ossessione patologica verso il proprio aspetto, va eventualmente riconosciuta dal chirurgo attraverso una lunga preparazione all'intervento realizzata in più fasi: incontri, colloqui e test, vengono svolti al fine di arginare ogni dubbio riguardo l'adeguatezza della richiesta di cambiamento. Allo stesso modo, il pericolo di generalizzare ogni operazione all'effetto di un problema psicologico ormai degenerato è però altrettanto comune e dannoso. In seguito allo studio e alle ricerche svolte, ritengo che una modifica della normativa attuale sia quanto mai auspicabile: è necessario riconoscere la legittimità di ogni intervento estetico quando volto all'eliminazione di una sofferenza psicofisica accertata e al ripristino del benessere dell'individuo. La chiave di volta del possibile cambiamento risiede nella revisione del concetto stesso di funzione, il cui significato non dovrebbe accogliere sotto di sé esclusivamente la funzionalità fisica, ma anche quella psicologica.

Chirurgia estetica: prospettive e problemi etici

DALLA VERDE, GIULIA
2011/2012

Abstract

Questa trattazione riguarda la chirurgia estetica e le relative implicazioni nel campo della bioetica, disciplina che si occupa di studiare i problemi delle scelte morali in questioni aventi a che fare con la vita biologica. Cercando di sgombrare il più possibile la mente da opinioni ricevute, pregiudizi e stereotipi, ho analizzato le considerazioni più frequentemente elaborate dal senso comune, nella ricerca delle reali motivazioni che spingono un individuo a modificare il proprio aspetto esteriore. E' giusto, ci si chiede, modificare a piacimento il proprio corpo senza che ciò incida sulla sopravvivenza dell'individuo, ossia senza che il ricorso alla chirurgia sia necessario per evitare la morte, allievare una sofferenza fisica o prevenirne l'avvento? E' legittimo utilizzare ogni risorsa prodotta dal progresso tecnico-scientifico al fine di migliorare il proprio aspetto, guidati da una serie di canoni estetici soggetti a mutamenti frequenti? Un individuo può sentirsi libero di adoperare i mezzi messi a disposizione dalla scienza per decidere così profondamente del proprio corpo, alterandone l'aspetto senza rendere conto delle sue decisioni? Sono queste alcune delle domande che sorgono quando si affronta la questione degli interventi della chirurgia estetica e della loro legittimità. La chirurgia plastica viene suddivisa in due branche, ricostruttiva ed estetica; mentre la prima comprende gli interventi volti a ripristinare e restaurare, perché deturpate da cause diverse, quali incidenti, difetti congeniti o malattie, le varie parti del corpo, la seconda viene invece utilizzata per modificarne l'aspetto esteriore, migliorandolo o mantenendolo, senza che sia necessariamente presente un difetto appariscente o una menomazione invalidante per chi ne è portatore. Le apparenti differenze vengono però conciliate dalla stessa medesima finalità: ripristinare il benessere psicofisico dell'individuo, invalidato da una percezione negativa del proprio aspetto, indipendentemente dal fatto che il presunto difetto possa godere di una valutazione obiettiva o per lo più soggettiva. L'eliminazione della sofferenza è l'obiettivo primario che il chirurgo si pone, e in questa prospettiva i due rami della chirurgia plastica si uniscono l'uno all'altro. Necessaria risulta essere la valutazione del reale motivo che spinge l'individuo a ricorrere alla chirurgia: il rischio che dietro alla sua richiesta si nasconda una patologia è reale e da non sottovalutare. La dismorfofobia, l'ossessione patologica verso il proprio aspetto, va eventualmente riconosciuta dal chirurgo attraverso una lunga preparazione all'intervento realizzata in più fasi: incontri, colloqui e test, vengono svolti al fine di arginare ogni dubbio riguardo l'adeguatezza della richiesta di cambiamento. Allo stesso modo, il pericolo di generalizzare ogni operazione all'effetto di un problema psicologico ormai degenerato è però altrettanto comune e dannoso. In seguito allo studio e alle ricerche svolte, ritengo che una modifica della normativa attuale sia quanto mai auspicabile: è necessario riconoscere la legittimità di ogni intervento estetico quando volto all'eliminazione di una sofferenza psicofisica accertata e al ripristino del benessere dell'individuo. La chiave di volta del possibile cambiamento risiede nella revisione del concetto stesso di funzione, il cui significato non dovrebbe accogliere sotto di sé esclusivamente la funzionalità fisica, ma anche quella psicologica.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.14240/135330