Il comma 3 dell’art. 27 Cost. individua i principi che stanno alla base del sistema penitenziario italiano: rieducazione e umanità delle pene. La pena detentiva oltre che tendere alla risocializzazione del detenuto, deve anche porsi come rispettosa della dignità della persona. In tale cornice si inserisce lo strumento del permesso: un beneficio penitenziario che consente al detenuto di uscire temporaneamente dall’istituto penitenziario e trascorrere del tempo in ambiente libero, con obbligo di rientro allo scadere del termine. In particolare, si distinguono due figure di permesso: il permesso di necessità e il permesso premio, disciplinati, rispettivamente, agli artt. 30 e 30 ter della legge sull’ordinamento penitenziario. Il beneficio del permesso di necessità persegue una finalità umanitaria. Esso, infatti, può essere concesso nei casi di imminente pericolo di vita di un familiare o convivente o al ricorrere di eventi di particolare gravità. Il permesso premio persegue invece una finalità esclusivamente trattamentale, rieducativa, consentendo al detenuto delle temporanee uscite dal carcere allo scopo di coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro. Ma entrambe le tipologie di permesso rispettano effettivamente i principi costituzionali che l’art. 27, al comma 3 Cost. prescrive? Se nel caso del permesso di necessità a sollevare dubbi è la seconda ipotesi di concedibilità dello strumento, prevista al comma 2 dell’art. 30 della l. 354/1975, per i permessi premio questioni di compatibilità costituzionale sorgono con riferimento alla disciplina contenuta all’interno dell’art. 4 bis o.p., una norma ideata dal legislatore allo scopo di combattere il fenomeno della criminalità organizzata. Il comma 1 dell’articolo appena citato, prevede una disciplina più severa nei confronti dei condannati per taluno dei reati in esso stesso elencati: per costoro, infatti, la concessione dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione è preclusa, salvo che non prestino un’utile collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58 ter della l. 354/1975. La collaborazione con la giustizia viene vista come l’unico strumento in grado di dimostrare non solo il venir meno del vincolo associativo, ma anche un’attenuata pericolosità sociale del reo. Ma è realmente così? Sicuramente la scelta di prestare una condotta collaborativa si pone come un forte segnale da parte del detenuto di voler prendere le distanze dal mondo criminale di appartenenza. Non è, però, sempre vero il contrario in quanto la scelta di non collaborare ben potrebbe essere sorretta da altre e svariate ragioni. Ebbene, è proprio tale meccanismo a porsi in contrasto con i principi affermati dal comma 3 dell’art. 27 della Costituzione. Attraverso lo studio di diverse pronunce è emerso come, in realtà, il condannato per taluno dei delitti ostativi sia comunque in grado, anche in assenza di condotta collaborativa, di dar prova del distacco dal mondo criminale di appartenenza. Un passo in avanti viene compiuto dalla Corte costituzionale nel 2019, con la sentenza n. 253, in tema di permessi premio. In tale pronuncia, la Consulta relativizza la preclusione prevista dal comma 1 dell’art. 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario. Lo scopo dell’elaborato è quello di dimostrare come esistano altri ed ulteriori elementi, diversi dalla collaborazione con la giustizia, in grado di provare il venir meno del vincolo associativo e un’attenuata pericolosità sociale.
I permessi e l'adeguamento del trattamento penitenziario ai principi costituzionali
FONTANA, FRANCESCA
2020/2021
Abstract
Il comma 3 dell’art. 27 Cost. individua i principi che stanno alla base del sistema penitenziario italiano: rieducazione e umanità delle pene. La pena detentiva oltre che tendere alla risocializzazione del detenuto, deve anche porsi come rispettosa della dignità della persona. In tale cornice si inserisce lo strumento del permesso: un beneficio penitenziario che consente al detenuto di uscire temporaneamente dall’istituto penitenziario e trascorrere del tempo in ambiente libero, con obbligo di rientro allo scadere del termine. In particolare, si distinguono due figure di permesso: il permesso di necessità e il permesso premio, disciplinati, rispettivamente, agli artt. 30 e 30 ter della legge sull’ordinamento penitenziario. Il beneficio del permesso di necessità persegue una finalità umanitaria. Esso, infatti, può essere concesso nei casi di imminente pericolo di vita di un familiare o convivente o al ricorrere di eventi di particolare gravità. Il permesso premio persegue invece una finalità esclusivamente trattamentale, rieducativa, consentendo al detenuto delle temporanee uscite dal carcere allo scopo di coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro. Ma entrambe le tipologie di permesso rispettano effettivamente i principi costituzionali che l’art. 27, al comma 3 Cost. prescrive? Se nel caso del permesso di necessità a sollevare dubbi è la seconda ipotesi di concedibilità dello strumento, prevista al comma 2 dell’art. 30 della l. 354/1975, per i permessi premio questioni di compatibilità costituzionale sorgono con riferimento alla disciplina contenuta all’interno dell’art. 4 bis o.p., una norma ideata dal legislatore allo scopo di combattere il fenomeno della criminalità organizzata. Il comma 1 dell’articolo appena citato, prevede una disciplina più severa nei confronti dei condannati per taluno dei reati in esso stesso elencati: per costoro, infatti, la concessione dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione è preclusa, salvo che non prestino un’utile collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58 ter della l. 354/1975. La collaborazione con la giustizia viene vista come l’unico strumento in grado di dimostrare non solo il venir meno del vincolo associativo, ma anche un’attenuata pericolosità sociale del reo. Ma è realmente così? Sicuramente la scelta di prestare una condotta collaborativa si pone come un forte segnale da parte del detenuto di voler prendere le distanze dal mondo criminale di appartenenza. Non è, però, sempre vero il contrario in quanto la scelta di non collaborare ben potrebbe essere sorretta da altre e svariate ragioni. Ebbene, è proprio tale meccanismo a porsi in contrasto con i principi affermati dal comma 3 dell’art. 27 della Costituzione. Attraverso lo studio di diverse pronunce è emerso come, in realtà, il condannato per taluno dei delitti ostativi sia comunque in grado, anche in assenza di condotta collaborativa, di dar prova del distacco dal mondo criminale di appartenenza. Un passo in avanti viene compiuto dalla Corte costituzionale nel 2019, con la sentenza n. 253, in tema di permessi premio. In tale pronuncia, la Consulta relativizza la preclusione prevista dal comma 1 dell’art. 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario. Lo scopo dell’elaborato è quello di dimostrare come esistano altri ed ulteriori elementi, diversi dalla collaborazione con la giustizia, in grado di provare il venir meno del vincolo associativo e un’attenuata pericolosità sociale.File | Dimensione | Formato | |
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