Questo lavoro è frutto di una ricerca di campo durata circa tre mesi (dicembre 2010- febbraio 2011) e realizzata tra San Cristóbal de Las Casas e Zinacantán, una ex città coloniale e una comunità indigena dell'Altopiano Centrale del Chiapas, lo stato più meridionale del Messico. L'obiettivo della ricerca era quello di studiare le forme di auto-rappresentazione fotografica sviluppatesi in comunità indigene dell'Altopiano, come Zinacantán, dove per un estraneo realizzare fotografie è sempre più difficile a causa dei divieti e della diffidenza degli abitanti. Dagli anni Settanta, infatti, molti comuni indigeni dell'Altopiano, invasi da un numero sempre crescente di ricercatori e turisti desiderosi di documentare visivamente quelle culture lontane, emanarono leggi che vietavano l'uso di fotocamere e videocamere nei luoghi e nelle cerimonie considerati sacri. Negli anni, però, mentre il divieto continuava a valere per gli stranieri, si indeboliva per gli indigeni che, data la crescente diffusione dei mezzi di comunicazione audiovisiva, iniziarono a produrre fotografie e filmati. Perciò mi sono chiesta: cosa succede quando il punto di vista si inverte e sono i soggetti fotografati a diventare fotografi? Lo studio della nascita e dell'evoluzione del Chiapas Photography Project, creato a San Cristóbal dall'artista e fotografa nordamericana Carlota Duarte nel 1992 per offrire agli indigeni la possibilità di rappresentare se stessi, mi ha permesso di rispondere in parte a quella domanda. Il progetto educativo ed antropologico avviato dalla Duarte e convogliato poi nel più ampio Archivio Fotografico Indigeno -promosso dall'allora direttrice del CIESAS-Sureste Teresa Rojas Rabiela- rappresenta un caso unico nella zona dell'Altopiano del Chiapas e una rarità nel contesto fotografico messicano. Ai partecipanti, provenienti dalle diverse comunità indigene dell'Altopiano, Carlota offriva una nuova tecnica visuale affinché fossero essi stessi a fotografare e studiare il proprio mondo dal proprio punto di vista. Così nell'Archivio, con il passare del tempo e l'ampliarsi del progetto, è venuta delineandosi una nuova visione fotografica, una visone indigena che ha permesso ai non-indigeni di guardare con altri occhi ad un mondo lontano, cogliendone aspetti quotidiani e rituali. Ciò che prima era nascosto, schiacciato da sguardi estranei, è venuto così alla luce dando vita ad un'ampia documentazione visiva sui modi di vivere e di vedere degli indigeni maya dell'Altopiano. Consultando le opere conservate nell'Archivio Fotografico Indigeno e osservando quelle realizzate dai due fotografi di Zinacantán che ho conosciuto, ho dedicato particolare attenzione al senso che i fotografi davano al loro lavoro e a quello che credevano di poter fare attraverso le immagini. Durante le interviste è emerso che molti di essi utilizzano le immagini per preservare le proprie tradizioni affinché le giovani generazioni possano conoscere il proprio passato. Altri invece ritengono che la fotografia li possa aiutare a denunciare le ingiustizie o ad elaborare i cambiamenti e i traumi delle loro vite. Altri ancora pensano che la fotografia sia un mezzo artistico di espressione attraverso il quale è possibile comunicare emozioni e sentimenti. Al di là dei progetti personali di ognuno, però, ciò che tutti contribuiscono a fare con il loro lavoro è riscattare una cultura, quella indigena, troppo a lungo denigrata.

La fotografia indigena in Chiapas: il caso dell'Archivio Fotografico Indigeno di San Cristobal de Las Casas

MARAN, ILENA
2010/2011

Abstract

Questo lavoro è frutto di una ricerca di campo durata circa tre mesi (dicembre 2010- febbraio 2011) e realizzata tra San Cristóbal de Las Casas e Zinacantán, una ex città coloniale e una comunità indigena dell'Altopiano Centrale del Chiapas, lo stato più meridionale del Messico. L'obiettivo della ricerca era quello di studiare le forme di auto-rappresentazione fotografica sviluppatesi in comunità indigene dell'Altopiano, come Zinacantán, dove per un estraneo realizzare fotografie è sempre più difficile a causa dei divieti e della diffidenza degli abitanti. Dagli anni Settanta, infatti, molti comuni indigeni dell'Altopiano, invasi da un numero sempre crescente di ricercatori e turisti desiderosi di documentare visivamente quelle culture lontane, emanarono leggi che vietavano l'uso di fotocamere e videocamere nei luoghi e nelle cerimonie considerati sacri. Negli anni, però, mentre il divieto continuava a valere per gli stranieri, si indeboliva per gli indigeni che, data la crescente diffusione dei mezzi di comunicazione audiovisiva, iniziarono a produrre fotografie e filmati. Perciò mi sono chiesta: cosa succede quando il punto di vista si inverte e sono i soggetti fotografati a diventare fotografi? Lo studio della nascita e dell'evoluzione del Chiapas Photography Project, creato a San Cristóbal dall'artista e fotografa nordamericana Carlota Duarte nel 1992 per offrire agli indigeni la possibilità di rappresentare se stessi, mi ha permesso di rispondere in parte a quella domanda. Il progetto educativo ed antropologico avviato dalla Duarte e convogliato poi nel più ampio Archivio Fotografico Indigeno -promosso dall'allora direttrice del CIESAS-Sureste Teresa Rojas Rabiela- rappresenta un caso unico nella zona dell'Altopiano del Chiapas e una rarità nel contesto fotografico messicano. Ai partecipanti, provenienti dalle diverse comunità indigene dell'Altopiano, Carlota offriva una nuova tecnica visuale affinché fossero essi stessi a fotografare e studiare il proprio mondo dal proprio punto di vista. Così nell'Archivio, con il passare del tempo e l'ampliarsi del progetto, è venuta delineandosi una nuova visione fotografica, una visone indigena che ha permesso ai non-indigeni di guardare con altri occhi ad un mondo lontano, cogliendone aspetti quotidiani e rituali. Ciò che prima era nascosto, schiacciato da sguardi estranei, è venuto così alla luce dando vita ad un'ampia documentazione visiva sui modi di vivere e di vedere degli indigeni maya dell'Altopiano. Consultando le opere conservate nell'Archivio Fotografico Indigeno e osservando quelle realizzate dai due fotografi di Zinacantán che ho conosciuto, ho dedicato particolare attenzione al senso che i fotografi davano al loro lavoro e a quello che credevano di poter fare attraverso le immagini. Durante le interviste è emerso che molti di essi utilizzano le immagini per preservare le proprie tradizioni affinché le giovani generazioni possano conoscere il proprio passato. Altri invece ritengono che la fotografia li possa aiutare a denunciare le ingiustizie o ad elaborare i cambiamenti e i traumi delle loro vite. Altri ancora pensano che la fotografia sia un mezzo artistico di espressione attraverso il quale è possibile comunicare emozioni e sentimenti. Al di là dei progetti personali di ognuno, però, ciò che tutti contribuiscono a fare con il loro lavoro è riscattare una cultura, quella indigena, troppo a lungo denigrata.
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