Il vasto patrimonio culturale ospitato sul territorio italiano ha da sempre richiesto numerosi interventi di restauro. Tra questi la pulitura è senza dubbio l'intervento che va più attentamente organizzato poiché − mirato all'eliminazione delle sostanze estranee e dei componenti frutto di alterazioni che compromettono la fruizione visiva dell'opera − è, di base, irreversibile. L'impiego di metodi chimici selettivi nei confronti del materiale che si vuole rimuovere contribuisce al ripristino dell'equilibrio chimico fisico dell'opera. Operato da maestri pittori, il restauro del secolo XIX vedeva il suo più grande nemico nei restauri passati. Elementi da rimuovere per una buona pulitura erano anche polvere e fumo. Nelle botteghe artigiane si trovavano impiegati: spirito di vino rettificato (alcol etilico), acqua ragia, benzina, urina, saliva umana, ammoniaca volatile e acqua maestra pura. Nel corso del Ventesimo secolo fu ampio lo studio che si fece delle forze di interazione tra le molecole, la loro distinzione in forze di tipo polare e di tipo apolare, fornendo la base su cui si affermò un importante concetto chimico fondamentale nel restauro: la teoria della solubilità. Il concetto di solubilità trovò ampia applicazione negli anni tra il 1950 e il 1980, soprattutto in relazione alla comparsa nell'ambito della pulitura dei beni culturali dei solventi di tipo organico. La loro efficacia e rapidità d'azione, oltre che il basso costo e l'apparente semplicità di utilizzo, ne garantirono un'ampia applicazione nonostante i problemi ad essi correlati. Il largo uso di solventi dannosi per la salute degli operatori, per l'ambiente e, talvolta, anche per le opere stesse, condusse alla necessità di sviluppare nuovi materiali per la pulitura. Per fare questo, si ricorse a quella che, nell'ultimo decennio del Novecento, venne definita chimica verde, ci si orientò verso sistemi a base acquosa e si svilupparono nuovi metodi per impiegare i solventi organici − molti dei quali erano effettivamente molto efficaci − che ne limitassero la tossicità. Negli ultimi due secoli si è assistito alla naturale evoluzione dei materiali impiegati nelle operazioni di pulitura, ma non solo; di pari passo sono cambiati anche i paradigmi culturali che si trovano alla base degli interventi stessi.

Approccio chimico al restauro: evoluzione dei materiali per la pulitura dal Diciannovesimo secolo ad oggi

ASTESANO, ALICE
2019/2020

Abstract

Il vasto patrimonio culturale ospitato sul territorio italiano ha da sempre richiesto numerosi interventi di restauro. Tra questi la pulitura è senza dubbio l'intervento che va più attentamente organizzato poiché − mirato all'eliminazione delle sostanze estranee e dei componenti frutto di alterazioni che compromettono la fruizione visiva dell'opera − è, di base, irreversibile. L'impiego di metodi chimici selettivi nei confronti del materiale che si vuole rimuovere contribuisce al ripristino dell'equilibrio chimico fisico dell'opera. Operato da maestri pittori, il restauro del secolo XIX vedeva il suo più grande nemico nei restauri passati. Elementi da rimuovere per una buona pulitura erano anche polvere e fumo. Nelle botteghe artigiane si trovavano impiegati: spirito di vino rettificato (alcol etilico), acqua ragia, benzina, urina, saliva umana, ammoniaca volatile e acqua maestra pura. Nel corso del Ventesimo secolo fu ampio lo studio che si fece delle forze di interazione tra le molecole, la loro distinzione in forze di tipo polare e di tipo apolare, fornendo la base su cui si affermò un importante concetto chimico fondamentale nel restauro: la teoria della solubilità. Il concetto di solubilità trovò ampia applicazione negli anni tra il 1950 e il 1980, soprattutto in relazione alla comparsa nell'ambito della pulitura dei beni culturali dei solventi di tipo organico. La loro efficacia e rapidità d'azione, oltre che il basso costo e l'apparente semplicità di utilizzo, ne garantirono un'ampia applicazione nonostante i problemi ad essi correlati. Il largo uso di solventi dannosi per la salute degli operatori, per l'ambiente e, talvolta, anche per le opere stesse, condusse alla necessità di sviluppare nuovi materiali per la pulitura. Per fare questo, si ricorse a quella che, nell'ultimo decennio del Novecento, venne definita chimica verde, ci si orientò verso sistemi a base acquosa e si svilupparono nuovi metodi per impiegare i solventi organici − molti dei quali erano effettivamente molto efficaci − che ne limitassero la tossicità. Negli ultimi due secoli si è assistito alla naturale evoluzione dei materiali impiegati nelle operazioni di pulitura, ma non solo; di pari passo sono cambiati anche i paradigmi culturali che si trovano alla base degli interventi stessi.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.14240/124209