Questo scritto si articola in tre capitoli. Nel primo si è voluto esporre sinteticamente le principali teorie diffuse nel corso del XX secolo in Europa. Per completezza, il metodo utilizzato è stato duplice: a un'introduzione di carattere storico, si è voluto affiancare un approccio analitico-fenomenologico. I nuclei concettuali attorno ai quali è stata articolata la riflessione sono costituiti da una doppia relazione riassumibile nei termini di «forza-violenza» e «violenza-potere». Dall'enunciazione classica dello Stato data da Weber, si è cercato di tracciare un percorso che portasse alla sistematizzazione filosofica di autori contemporanei come Heinrich Popitz o Slavoj ¿i¿ek. Grande spazio è stato riservato alla trattazione dei contenuti specifici di una tradizione che, inaugurata con Engels e Marx, ha considerevolmente ampliato il campo semantico del concetto e ha influenzato alcuni tra gli eventi più significativi del XX secolo. Ancora più rilevante è il modo in cui questa eredità è stata raccolta e sviluppata: uomini come Sorel, Lenin e Benjamin hanno declinato la loro critica della violenza in modo spesso originale. L'intreccio tra elaborazione teoretica, vicende biografiche, formazione culturale e contesto storico fu particolarmente felice se si considera l'influsso che esercitarono per tutto il '900 in ambito filosofico e politico, anche su personalità di primo piano come Sartre, Marcuse, Camus e Arendt. Il secondo capitolo è incentrato sul concetto di «reine Gewalt» così com'è stato elaborato da Walter Benjamin nel saggio Zur Kritik der Gewalt. Egli cerca di fondare una violenza qualitativamente diversa, che non ponga o conservi il diritto, ma che sia «manifestazione» del «divino». Questa prospettiva gli permette di sviluppare anche una critica alla non-violenza, al parlamentarismo e alla polizia. Oltre a svelare il fondamento mistico dell'autorità e l'incommensurabilità tra la giustizia (intesa come Erlösung) e il diritto, il testo di Benjamin invita all'azione.L'ultimo capitolo ospita la teoria del «potere» così com'è stata formulata da Hannah Arendt. Ella individua con lucidità il pericolo che la politica, intesa come massima e specifica espressione di ciò che è propriamente umano, sta correndo: essa rischia di rimanere soffocata dalla crescita esponenziale del piano sociale e di quello economico. Per questo, la Arendt cerca di rifondare uno spazio «puro» del politico, il cui modello viene trovato nell'esperienza della polis greca. Il terzo paragrafo è dedicato all'esplicitazione dei nodi problematici della teoria arendtiana del «politico», ripresi poi nella parte conclusiva del lavoro. L'assunto secondo cui il potere e la violenza darebbero origine a fenomeni inconciliabili e opposti crea non poche difficoltà a una teoria che testimonia la sua vitalità non tanto nel suo potere descrittivo, quanto in quello pratico-orientativo. L'elemento della «purezza», la scelta della polis come modello del politico, la volontà di contrastare la riproducibilità di eventi come il Nazionalsocialismo, prendendo le distanze, però, anche dalla tradizione marxista hanno fatto sì che la Arendt potesse muoversi all'interno di uno spazio angusto nell'articolazione delle sue tesi. Per mantenere la coerenza interna dell'impianto, la Arendt deve pagare un prezzo: la sua teoria sembra essere eccessivamente esclusiva e idealistica

Teoria e critica della violenza tra Walter Benjamin e Hannah Arendt

ZITO, SIMONE
2011/2012

Abstract

Questo scritto si articola in tre capitoli. Nel primo si è voluto esporre sinteticamente le principali teorie diffuse nel corso del XX secolo in Europa. Per completezza, il metodo utilizzato è stato duplice: a un'introduzione di carattere storico, si è voluto affiancare un approccio analitico-fenomenologico. I nuclei concettuali attorno ai quali è stata articolata la riflessione sono costituiti da una doppia relazione riassumibile nei termini di «forza-violenza» e «violenza-potere». Dall'enunciazione classica dello Stato data da Weber, si è cercato di tracciare un percorso che portasse alla sistematizzazione filosofica di autori contemporanei come Heinrich Popitz o Slavoj ¿i¿ek. Grande spazio è stato riservato alla trattazione dei contenuti specifici di una tradizione che, inaugurata con Engels e Marx, ha considerevolmente ampliato il campo semantico del concetto e ha influenzato alcuni tra gli eventi più significativi del XX secolo. Ancora più rilevante è il modo in cui questa eredità è stata raccolta e sviluppata: uomini come Sorel, Lenin e Benjamin hanno declinato la loro critica della violenza in modo spesso originale. L'intreccio tra elaborazione teoretica, vicende biografiche, formazione culturale e contesto storico fu particolarmente felice se si considera l'influsso che esercitarono per tutto il '900 in ambito filosofico e politico, anche su personalità di primo piano come Sartre, Marcuse, Camus e Arendt. Il secondo capitolo è incentrato sul concetto di «reine Gewalt» così com'è stato elaborato da Walter Benjamin nel saggio Zur Kritik der Gewalt. Egli cerca di fondare una violenza qualitativamente diversa, che non ponga o conservi il diritto, ma che sia «manifestazione» del «divino». Questa prospettiva gli permette di sviluppare anche una critica alla non-violenza, al parlamentarismo e alla polizia. Oltre a svelare il fondamento mistico dell'autorità e l'incommensurabilità tra la giustizia (intesa come Erlösung) e il diritto, il testo di Benjamin invita all'azione.L'ultimo capitolo ospita la teoria del «potere» così com'è stata formulata da Hannah Arendt. Ella individua con lucidità il pericolo che la politica, intesa come massima e specifica espressione di ciò che è propriamente umano, sta correndo: essa rischia di rimanere soffocata dalla crescita esponenziale del piano sociale e di quello economico. Per questo, la Arendt cerca di rifondare uno spazio «puro» del politico, il cui modello viene trovato nell'esperienza della polis greca. Il terzo paragrafo è dedicato all'esplicitazione dei nodi problematici della teoria arendtiana del «politico», ripresi poi nella parte conclusiva del lavoro. L'assunto secondo cui il potere e la violenza darebbero origine a fenomeni inconciliabili e opposti crea non poche difficoltà a una teoria che testimonia la sua vitalità non tanto nel suo potere descrittivo, quanto in quello pratico-orientativo. L'elemento della «purezza», la scelta della polis come modello del politico, la volontà di contrastare la riproducibilità di eventi come il Nazionalsocialismo, prendendo le distanze, però, anche dalla tradizione marxista hanno fatto sì che la Arendt potesse muoversi all'interno di uno spazio angusto nell'articolazione delle sue tesi. Per mantenere la coerenza interna dell'impianto, la Arendt deve pagare un prezzo: la sua teoria sembra essere eccessivamente esclusiva e idealistica
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.14240/115096