La comune partecipazione di ciascun socio agli utili derivanti dalla gestione sociale è sempre stata considerata in tutti i diritti, antichi e moderni, condizione necessaria del contratto di società. Con il termine societas leonina s'identifica solitamente un tipo di società in cui uno dei soci ritiene per intero il ricavato destinando agli altri soci la divisione delle perdite, facendo in questo modo ¿la parte del leone¿. Ma una società con queste caratteristiche è tale solo sulla carta: per questa ragione i giuristi romani la proclamavano inammissibile e quindi invalida, definendola ¿iniquissimum genus societatis¿. I giureconsulti infatti, pur riconoscendo alle parti la facoltà di convenire quote disuguali nel riparto degli utili e delle perdite, pongono un limite invalicabile nel divieto di costituzione della societas leonina, originariamente identificata nell'esclusione di taluno dei soci dai guadagni pur concorrendo alle perdite. La partecipazione agli utili è quindi considerata requisito indefettibile del contratto di società, la cui esclusione rende il negozio inaccettabile dal punto di vista etico ancor prima che da quello giuridico. Differente valore attribuiscono invece al patto di esclusione dalle perdite, la cui liceità viene comunemente riconosciuta, come nell'ipotesi del socio d'opera, il quale contribuisce all'attività sociale mettendo a disposizione la propria industria anziché conferendo beni e capitali. Solo in età medievale tale concezione assume un significato più ampio, dove i due profili della partecipazione agli utili e della soggezione alle perdite confluiscono unitariamente nella nozione del contratto di società, e pertanto viene definita leonina (e di conseguenza illecita) anche la società in cui uno dei soci sia sottratto alle perdite. Quest'ultima impostazione è giunta fino ai giorni nostri, mutando però completamente la sua ratio, ed è contemplata dall'articolo 2265 del Codice Civile, il quale recita: ¿È nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite¿. Tuttavia il diritto italiano moderno parte dal presupposto che le parti non possono ignorare o disconoscere il principio legale di una indispensabile ripartizione tra i soci degli utili e delle perdite e parla di un ¿patto leonino¿ inserito contra ius nel contratto che istituisce la società. In questo modo stabilisce che il patto è nullo, ma la società è valida. Scopo di questa trattazione è delineare l'evoluzione di quest'istituto dal diritto romano all'ordinamento attuale, evidenziandone differenze e tratti comuni.

Il divieto del patto leonino

DEPASCALE, DAVIDE
2018/2019

Abstract

La comune partecipazione di ciascun socio agli utili derivanti dalla gestione sociale è sempre stata considerata in tutti i diritti, antichi e moderni, condizione necessaria del contratto di società. Con il termine societas leonina s'identifica solitamente un tipo di società in cui uno dei soci ritiene per intero il ricavato destinando agli altri soci la divisione delle perdite, facendo in questo modo ¿la parte del leone¿. Ma una società con queste caratteristiche è tale solo sulla carta: per questa ragione i giuristi romani la proclamavano inammissibile e quindi invalida, definendola ¿iniquissimum genus societatis¿. I giureconsulti infatti, pur riconoscendo alle parti la facoltà di convenire quote disuguali nel riparto degli utili e delle perdite, pongono un limite invalicabile nel divieto di costituzione della societas leonina, originariamente identificata nell'esclusione di taluno dei soci dai guadagni pur concorrendo alle perdite. La partecipazione agli utili è quindi considerata requisito indefettibile del contratto di società, la cui esclusione rende il negozio inaccettabile dal punto di vista etico ancor prima che da quello giuridico. Differente valore attribuiscono invece al patto di esclusione dalle perdite, la cui liceità viene comunemente riconosciuta, come nell'ipotesi del socio d'opera, il quale contribuisce all'attività sociale mettendo a disposizione la propria industria anziché conferendo beni e capitali. Solo in età medievale tale concezione assume un significato più ampio, dove i due profili della partecipazione agli utili e della soggezione alle perdite confluiscono unitariamente nella nozione del contratto di società, e pertanto viene definita leonina (e di conseguenza illecita) anche la società in cui uno dei soci sia sottratto alle perdite. Quest'ultima impostazione è giunta fino ai giorni nostri, mutando però completamente la sua ratio, ed è contemplata dall'articolo 2265 del Codice Civile, il quale recita: ¿È nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite¿. Tuttavia il diritto italiano moderno parte dal presupposto che le parti non possono ignorare o disconoscere il principio legale di una indispensabile ripartizione tra i soci degli utili e delle perdite e parla di un ¿patto leonino¿ inserito contra ius nel contratto che istituisce la società. In questo modo stabilisce che il patto è nullo, ma la società è valida. Scopo di questa trattazione è delineare l'evoluzione di quest'istituto dal diritto romano all'ordinamento attuale, evidenziandone differenze e tratti comuni.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.14240/102523