Il presente lavoro intende affrontare il difficile connubio tra affettività e detenzione, due termini in apparenza contrastanti e inconciliabili, ma che, al fine di una consapevole rieducazione e di un responsabile reinserimento sociale del reo, dovrebbero essere armoniosamente integrati. Ad una breve panoramica storica e normativa, presente nel primo capitolo, seguirà la trattazione degli istituti canonici, intramurari ed extramurari, che nel nostro ordinamento penitenziario permettono ai detenuti di mantenere, migliorare o ristabilire i rapporti affettivi con i familiari, obiettivo considerato di primaria importanza ex art. 28 della legge sull'ordinamento penitenziario. Benché tale intento sia profondamente lodevole, però, nel terzo capitolo si vedrà come la tutela del diritto all'affettività - e nello specifico del diritto alla sessualità - nell'ordinamento italiano sia ineluttabilmente arretrata rispetto agli altri Stati europei e internazionali, nella maggior parte dei quali i reclusi hanno la possibilità di vivere ogni sfumatura della propria affettività, pur rimanendo all'interno del contesto carcerario. Si noterà, inoltre, come la negazione di tale diritto provochi effetti deleteri sulle condizioni psicosociali del detenuto che si riflettono, poi, sui rapporti familiari, sui familiari stessi, sul clima all'interno degli istituti di pena e, in un'ottica rieducativa, anche sulla società libera. Infine, il quarto capitolo si concentrerà su un'altra sfumatura dell'affettività, la genitorialità e, in particolare, sull'importanza di rimanere padri e madri anche a seguito della reclusione e sulla necessità, per i figli, di continuare ad intrattenere rapporti con essi, non andando incontro al rischio di diventare vittime di una condanna che non hanno meritato.