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I vitigni autoctoni hanno da sempre un legame profondo e antico con la terra dalla quale derivano, sono legati alla cultura di un popolo e fanno parte della ricchissima biodiversità caratterizzante di un determinato luogo. Molti di essi sono ormai varietà molto rare, salvate soprattutto da programmi di recupero volti ad evitarne la scomparsa. Il Piemonte è un esempio di questa biodiversità con quasi un centinaio di vitigni diversi e considerati autoctoni. Parlarne in questo studio può essere un modo di riscoprirli e conoscerli meglio, comprendendo come le loro caratteristiche varietali possano essere valorizzate e quali pratiche enologiche mettano in luce i punti di forza delle loro componenti. Partendo da varietà conosciute come il Nebbiolo e passando ad altre, più nascoste e dimenticate, come l'Avanà, il Bequet e lo Chatus (detto anche Nebbiolo di Dronero), questi “vecchi” vitigni possono essere riscoperti, possono suscitare l'interesse verso le loro particolarità proprio grazie al legame storico e profondo che hanno con il proprio territorio. Molte di queste varietà sono oggi presenti in areali di montagna, un ambiente spesso ostile per la coltivazione della vite, ma che potrebbe nascondere delle potenziali opportunità di innovazione e recupero, soprattutto con i cambiamenti climatici che, nel mondo attuale, coinvolgono tutta l'agricoltura. Lo scopo di questa tesi è stato quello di analizzare alcuni di questi vitigni dal punto di vista delle loro caratteristiche fenoliche, del profilo antocianico e anche cromatico, mettendoli a confronto tra loro, anche sulla base della zona in cui vengono solitamente coltivati, cercando di capire quali pratiche enologiche si addicano maggiormente alle caratteristiche di ciascuno di essi. Infatti sia le tecniche enologiche, sia i vitigni, hanno caratteristiche che si sposano meglio soltanto tra alcuni di essi. Un esempio conosciuto a livello mondiale, e richiamato anche nello studio, è quello della macerazione carbonica associata alla cultivar Gamay per produrre il vino Beaujolais. Come questa associazione tra vitigno e pratica enologica molto celebre, possono esserne scoperte altre proprio sfruttando determinate cultivar più sconosciute. Ecco un altro obbiettivo di questa tesi insieme all'analisi dei profili antocianici e il confronto tra essi. Dai risultati riportati e si evince quanto le varietà presentino tra loro differenze sostanziali anche solo considerando gli antociani disostituiti e trisostituiti ma anche quanto varietà apparentemente lontane, come appunto il Nebbiolo e l'Avanà, siano, a livello antocianico, piuttosto simili. Questo aspetto è molto curioso soprattutto se si considerano le zone di provenienza e coltivazione ma anche le differenze a livello di diffusione. La conclusione fondamentale in relazione al profilo antocianico considerando i singoli antociani monomeri è quella che la loro percentuale sia sostanzialmente riferibile ad una caratteristica genetica, modificabile in termini minimi dal clima, dall' ambiente e dalle pratiche colturali utilizzate. Se invece giudichiamo i risultati di antociani totali e di tannini totali, notiamo differenze più marcate, sia in base alle zone di provenienza, sia in base alle tecniche enologiche utilizzate. Tutto questo discorso deve essere tenuto in considerazione in base all'obbiettivo enologico di ciascuno e al prodotto che si vuole ottenere da determinati vitigni e vinificazioni
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