La psilocibina è un alcaloide presente nei funghi del genere Inocybe, comunemente definiti “allucinogeni” data la loro attività sulla psiche umana che si manifesta con illusioni, allucinazioni, alterazione della percezione delle emozioni e delle capacità mnemoniche. A seguito dell’assunzione orale, la psilocibina è rapidamente defosforilata in ambiente acido nello stomaco da una fosfatasi alcalina a psilocina, la quale dopo essere stata assorbita e distribuita, attraverserà facilmente la
barriera ematoencefalica. La psilocibina appartiene alla classe delle triptamine. Essendo molto simile alla serotonina, essa è in grado di legarsi ad alcuni recettori serotoninergici, tra cui il recettore 5HT2A la cui attivazione innesca la cascata del segnale intracellulare con la conseguente comparsa delle allucinazioni e degli effetti tipici di questa molecola. Essendo la serotonina notoriamente coinvolta nel disturbo depressivo maggiore, l’utilizzo della psilocibina è stato valutato nel trattamento della depressione in alcuni studi clinici, dai quali è emerso che la molecola esercita
effetti antidepressivi significativi rispetto al placebo, con remissione dei sintomi depressivi che si manifesta già dopo una sola somministrazione e che perdura nel 54% dei soggetti fino a quattro settimane dopo la somministrazione. Una singola somministrazione di psilocibina genera gli stessi effetti che si osservano dopo 6 mesi di trattamento con il farmaco antidepressivo escitalopram, a fronte di effetti collaterali lievi oltre agli effetti allucinogeni limitati alle poche ore successive alla
somministrazione. L'emergente efficacia terapeutica della psilocibina per la depressione ha ispirato un enorme interesse per i meccanismi neurobiologici sottostanti e si è potuto dimostrare che attraverso il suo
bersaglio recettoriale principale, la psilocibina è associata ad un aumento acuto del rilascio corticale di glutammato e all’attivazione prolungata della neurotrasmissione eccitatoria nei neuroni piramidali. La psilocibina attiva inoltre due vie di segnalazione sinaptogene vale a dire BDNF e mTOR, che orchestrano, in parte, la rapida e sostenuta facilitazione del rimodellamento neuronale sinaptico, strutturale e funzionale, e questo può mediare la sua efficacia clinica. Recentemente però
uno studio in vivo su un modello animale di depressione ha riaperto la questione sul reale meccanismo d’azione della psilocbina. Lo studio di Hasselgrave (2021) utilizza topi esposti ad uno stimolo stressogeno ripetuto, nei quali lo stress riduce la risposta a stimoli altrimenti ritenuti piacevoli. La somministrazione di una dose di psilocibina ripristina, in questi animali, la capacità di rispondere ai suddetti stimoli, ma questo effetto non è compromesso dalla somministrazione concomitante di ketanserina, un antagonista dei recettori 5HT2A. La risposta antianedonica alla psilocibina è stata accompagnata da un rafforzamento delle sinapsi
eccitatorie nell'ippocampo, una caratteristica degli antidepressivi tradizionali e ad azione rapida. L’importanza di questo studio, che usa un modello animale per studiare una patologia complessa quale la depressione, è innegabile, e i suoi risultati aprono quindi la via ad una possibile interpretazione alternativa del meccanismo antidepressivo della psilocibina, la cui comprensione è
imprescindibile per la sua introduzione in clinica e per la gestione dei suoi effetti collaterali.