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"Quasi tutti gli uomini possono sopportare le avversità: se vuoi mettere alla prova il carattere di un uomo, dagli il potere". Lo affermava Abraham Lincoln, e le risposte a tale considerazione, così formulata, ci porterebbero lontano, seguendo tracce molto battute da tutti quelli che, nella storia, hanno tentato di definire il significato di potere, misurare il suo rapporto con l’etica e l’integrità, definirne il ruolo nelle relazioni sociali, pesarne l’influenza negli avvenimenti. Quello che la mente del presidente, pur straordinaria per apertura e capacità di immaginare cambiamenti inauditi nella società e lottare per realizzarli, non vedeva, era la limitazione di questa frase, la sua parzialità: per lui il potere era qualcosa che si applicava e si declinava in un contesto maschile, o non era. Perchè non provare quindi a porsi la questione senza limitazioni di genere, indagando che cosa accade quando il potere si dà a una donna, o – come più spesso è avvenuto nei secoli – lei se lo prende. Cercando, quindi di esaminare le caratteristiche del potere femminile non in astratto, ma attraverso le vite e le opere di alcune rappresentanti che hanno sfidato l’invisibilità che di solito accompagna la condizione femminile, si scopre che la storia, in realtà, l’hanno modificata, plasmata, piegata, con i loro atti di potere. E sì che gli uomini non si sono risparmiati nel costruire alti muri intorno a immaginari o reali “mondi rosa” in cui relegare le donne forti e fastidiose per lo status quo. Come sostiene Mary Beard, il ​​primo episodio di tentata esclusione delle donne dal discorso pubblico, inizia già con Telemaco, giovanetto senza padre alla corte di Itaca. La madre, Penelope, in mezzo a una casa occupata da una folla di numerosi pretendenti, chiede al cantastorie che li intrattiene di intonare un canto più allegro, ma a tale richiesta Telemaco risponde: “Madre mia, va’ nella stanza tua, accudisci ai lavori tuoi, il telaio, la conocchia, e comanda alle ancelle di badare al lavoro: la parola spetterà qui agli uomini, a tutti e a me soprattutto, che ho il potere qui in casa”. Benedetta Craveri, in “Amanti e Regine”, ci racconta di come una concezione della donna antropologicamente, essenzialmente, “naturalmente” mancante di forza intellettuale, morale e psichica, fosse condivisa da tutti i pensatori (maschi) dell’Europa del 1600, e come con tale fallace e apodittica premessa si giustificava l’allontanamento femminile dal potere. Jean Bodin, il giurista francese, lo proclamava apertis verbis: le donne devono “...essere tenute lontane da tutte le magistrature, i luoghi di comando, i giudizi, le assemblee pubbliche e i consigli, perché si occupino solo delle loro faccende donnesche e domestiche”. Quanta poca strada, da Itaca a Parigi, attraverso i secoli. Eppure, c’è stato chi, pur indossando trine e merletti, ha saputo, nel corso dei secoli, conquistare e gestire il potere con forza, tenacia, sagacia e visione. Donne che hanno tessuto relazioni diplomatiche, scatenato guerre, garantito benessere, difeso la pace e insieme la loro autonomia da ogni ingerenza, fedeli più che a un compagno a un loro ideale, e ritagliandosi un ruolo di prestigio in una storia e in un mondo completamente al maschile. In particolare, questo elaborato presenta e analizza tre esempi di grandi donne di potere che hanno plasmato l'Europa del Settecento: Elisabetta Farnese, Maria Teresa d'Austria, Anna Stuart.
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