L’arsenico è un semimetallo noto per avere una spiccata tossicità in funzione della specifica forma chimica: quella organica è potenzialmente meno dannosa di quella inorganica. Se l’assunzione di 10-50 milligrammi causa una intossicazione acuta caratterizzata da vomito, dolori addominali, diarrea, insensibilità agli arti e polinevriti, l’esposizione cronica a dosi inferiori può causare ipercheratosi del
palmo della mano e della pianta del piede e lesioni cutanee. Inoltre, la International Agency for Research on Cancer (IARC) classifica l’arsenico nel gruppo 1 (cancerogeni umani), cioè tra quelle sostanze con un alto grado di probabilità di determinare tumori nell’ uomo.
Il meccanismo di tossicità, seppure non del tutto chiarito, coinvolge la
produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS), promuovendo quindi uno stato di stress ossidativo che comporta l’inattivazione di numerosi enzimi presentanti gruppi tiolici nei propri siti attivi, la promozione dell’autofagia mitocondriale e la produzione di microRNA (Hu, et al., 2020). Tuttavia, a partire dalla medicina tradizionale cinese è stato ipotizzato che l’arsenico potesse avere anche un
effetto terapeutico. Scopo della Tesi è stato quindi quello di effettuare una revisione della letteratura pubblicata negli ultimi anni sull’uso terapeutico dell’arsenico. Dalla ricerca effettuata è emerso che l’arsenico è stato studiato per il trattamento della leucemia promielocitica acuta (APL). A partire dal salvarsan, sviluppato nel 1910, diversi altri arsenicali sono stati studiati. In particolare, il triossido di arsenico (ATO) per via endovenosa è stato approvato dall’EMA a partire dal 2002 per il trattamento di prima linea di pazienti con APL in associazione con acido all-trans retinoico (ATRA) e in seconda linea per pazienti con APL recidivi dopo o refrattari
al trattamento con un retinoide e medicinali antitumorali. Il meccanismo d’azione imputato dell’effetto terapeutico sembra proprio essere la capacità dell’arsenico di indurre cambiamenti morfologici e la frammentazione del DNA con conseguente apoptosi, come dimostrato in vitro su cellule NB4 di leucemia promielocitica umana (Mandegary & Mehrabani, 2010). L’ATO causa
inoltre danno o degradazione a carico della proteina di fusione PML/RAR-alfa (Dos Santos, et al, 2013).
La dose utilizzata in terapia è 0,15 mg/kg/die per un massimo di 60 giorni a cui si possono aggiungere, per il consolidamento, fino a un massimo di 4 cicli di 4 settimane di terapia + 4 settimane di sospensione. Questi schemi posologici permettono di evitare il raggiungimento della concentrazione letale che è pari a
1-2 mg/kg, ma spiegano la comparsa dei diversi effetti collaterali quali anomalie dell’elettrocardiogramma con allungamento del tratto QT, epatotossicità, leucocitosi, iperglicemia, neuropatia periferica e lesioni cutanee (Wang, et al., 2020). L’analisi della letteratura più recente su questo farmaco dimostra come l’efficacia
della terapia pone oggi un nuovo obiettivo: ottimizzare il trattamento con ATO superando i limiti della somministrazione endovenosa, che essendo invasiva incontra minore compliance da parte dei pazienti e richiede la somministrazione ambulatoriale determinando in questo modo anche un’alta spesa farmaceutica. Pertanto, è in fase di ottimizzazione la possibilità di una somministrazione orale
(Kumana, et al., 2020), che ha anche dimostrato una minore incidenza di effetti collaterali quali ad esempio l’allungamento del tratto QT (Burnett,et al, 2015).